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giovedì 10 dicembre 2020

Di tanto amore


Avevo interrotto da qualche giorno la lettura di un giallo, e quando l’ho ripreso non ricordavo quasi nulla delle cento pagine già lette, così ho dovuto sfogliarlo daccapo. Nel farlo mi sono accorto di tanti particolari che non avevo colto la prima volta. Un po’ per la maggiore attenzione, soprattutto perché lo leggevo “col senno di poi”, cioè avendo già una certa conoscenza di quel che sarebbe accaduto. Ciò mi permetteva di cogliere piccoli indizi nascosti dallo scrittore e che prima non potevo notare.


Sto ascoltando Fossati, mentre scrivo questo post. “Di tanto amore”, una delle canzoni che amo di più, e che però ho scoperto da poco tempo, insieme a tante altre. Lo vidi in concerto alla fine degli anni novanta, a Palinuro. Fece un lungo set acustico suonando un magnifico piano a coda al centro del palco. Chissà se fra queste c’era anche Di tanto amore? Non lo ricordo. Non conoscendola, non la notai. Mentre ora chissà che piacere sarebbe poterlo ascoltare e cantare insieme a lui. Ma lui si è ritirato, l’occasione è sfumata. Non posso rileggere questa storia come ho fatto con il romanzo.


Ed è pure capitato di conoscere una persona per la prima volta, diventare intimi, indispensabili, e per caso scoprire di essere stati nello stesso posto in una medesima occasione tempo addietro, magari a una festa, un concerto, un viaggio, ovviamente non conoscendosi non c’è stata alcuna interazione. Eppure potendo rivivere quel momento, quella stessa occasione avrebbe occupato tutt’altro posto nella memoria, avremmo focalizzato la nostra attenzione su di lei, come se in un film una comparsa diventasse d’un tratto protagonista. Ma questo si può solo immaginare.

Come si può solo immaginare di cambiare le cose. Illudersi che sapendo in anticipo cosa accadrà, potrai cambiare il destino, capire un piccolo sintomo ed evitare l’insorgere della malattia, cogliere nello sguardo della persona che ti è accanto quel vuoto che porterà la vostra storia alla fine, e provare a riempirlo prima che sia troppo tardi.


Non si può. Il giallo che sto leggendo non cambierà finale anche se ora, tornando dall’inizio ho più informazioni. La storia è già stata scritta. Al massimo capirò prima chi sarà il colpevole, tutto qui. 

venerdì 16 ottobre 2020

La stagione dell'amore

 

Piove.

- Me lo presti lo stesso, il motorino, Federico? Mi vergogno di gironzolare a piedi sotto casa sua, così faccio finta che passo per caso e vedo se sta là davanti con le amiche mi fermo un po’.

- Ma che vuol essere uscita? Lorè, piove.

- E magari da lei no.

- Lorè, quella, casa sua, sta a duecento metri da qua. Se piove qua, piove pure là.

- Me lo presti o no?

- Che capo tosta che tieni, vai, ma ti inzupperai d’acqua.

- Quando mai, quello mo’ scampa.

La pioggia di oggi, acqua di ottobre, mi ricorda quante volte sono passato “per caso” nel posto dove volevo andare.

Col motorino, per non far sembrare fossi lì per lei.

Con le parole delle canzoni, dette per non dire le mie.

Con i Ti amo ma non è vero, come puoi pensarlo, ahahahah.

Con i sì che mi imbarazzano e mi fanno cambiare discorso.

Con le ragioni dei no che dico per primo per non sentirmeli dire.

E continua a piovere. E’ stagione, in fondo.

La stagione dell’amore, che viene e va.

Aspettiamo un raggio di sole. Aspettiamo un altro entusiasmo che ci faccia pulsare il cuore.

Piove da te? Che mi faccio prestare il motorino.

domenica 6 settembre 2020

Porte girevoli


A volte mi perdo a pensare a quante persone ho conosciuto. Provo addirittura a contarle, i compagni di scuola dalle elementari alla maturità, quelli dell’università, e gli amici di Roma e quelli del paese, in pratica tutti gli abitanti, e tanti che non ci sono più, e poi i colleghi, i clienti, e l’elenco sarebbe ancora lungo, come gli anni passati, ahimè.

E in mezzo a questi le persone che mi hanno voluto bene, a cui ho voluto bene, quelle che hanno lasciato tracce che vorrei non si cancellassero mai. L’esistenza è fatta di porte girevoli, si dice. Persone entrano ed escono di continuo, niente dura per sempre, dovrei rassegnarmi. E invece non lo faccio, sprango le porte, provo a non perdere nessuno, mi aggrappo ai ricordi, li tengo vivi, li nutro, li riscrivo, ne faccio storie, io faccio sempre storie, per ogni cosa. Ma più si va avanti con gli anni più capitano certi giorni che basta ritrovare un biglietto, una foto, ascoltare una canzone, e i ricordi rischiano di soffocarti. Allora esco di soppiatto, e li chiudo dentro. Fuori c’è aria limpida e fresca, sul tardi. Settembre, quando vuole, sa fingere di essere inizio e non fine.

E allora fingo anch’io, che ci vuole.

giovedì 6 agosto 2020

Il lampadario





 

La nostra camera da letto, quando ci sposammo, era in realtà ancora quella dei miei. All’epoca lavoravo solo io, guadagnavo quanto bastava a vivere dignitosamente ma senza voli pindarici. Avendo già speso molto per le nozze, preferimmo conservarla ancora per un po’. Io, poi, ci ero affezionato.

Era in puro stile motel anni settanta. Le linee geometriche, le curve ardite e le risalite (il lettone era basso e senza sponde e da piccolo cadevo spesso). Fu solo diversi anni dopo, che la cambiammo prendendone una nuova. Era ormai tempo, e poi la nostra situazione economica era molto migliorata. Così comprò quella che più le piaceva, e io non misi bocca. Aveva accettato per anni di dormire in quella dei miei genitori, ora la decisione doveva essere solo sua.

Fu mia solo quella del lampadario.

Per la verità, andammo insieme a comprarlo, ma quello che volevo io piacque anche a lei e così fummo subito d’accordo. Lo guardavamo insieme, a volte, mentre stavamo sul letto, e pur essendo quasi paccottiglia ci dicevamo che era stata proprio una scelta azzeccata, una delle poche fatte insieme senza discutere a lungo prima. Quando il sole ci si rifletteva, si trasformava in un prisma, e che bell’effetto faceva sulle curve del suo corpo nudo!

Ci ho fatto l’amore con un’altra ragazza, in quella stanza.

Non mi sono venuti in mente significati particolari, un letto è un letto, una camera vale l’altra. Mentre siamo ancora distesi, nudi, in penombra, un raggio di sole filtra dalle imposte socchiuse e attraversa i cristalli del lampadario per poi proiettarsi nella stanza.

“È molto bello”, mi dice lei, guardando il soffitto.

E io ripenso a quella volta, nel negozio, a quell’unica scelta condivisa. Quando mai avrei immaginato che, un giorno, quella luce avrebbe illuminato un corpo che non era il suo.

“Grazie”, le rispondo, fingendo di non aver capito, “è bello anche per me essere qui con te”.

Sorride, mi abbraccia. La risposta le va bene.

Una nuvola copre il sole, il riflesso scompare. Le cose tornano a essere cose, oggetti inanimati, senza passato. Beate loro.


martedì 14 luglio 2020

Non è un paese per vecchi


Un giorno, di un mese, di un anno imprecisato, sono diventato vecchio.
E’ accaduto così, subdolamente, senza che me ne accorgessi, mentre ero intento come sempre a lamentarmi dei miei acciacchi come faccio sin da bambino, e non ho avuto la lucidità di rendermi conto che erano acciacchi da vecchi; e anche quella noia continua che provavo fin’allora si era trasformata nella noia dei vecchi; la fatica ad alzarmi dal divano senza un valido motivo era ormai la fatica dei vecchi; il desiderio di polemizzare era divenuto quello dei vecchi.
Altri, forse più fortunati di me, la vita li ha resi partecipi del passaggio.
Sento ripetere, ad esempio, a mia madre: “dopo un paio di rampe di scale mi devo fermare un attimo, invece quand’ero giovane facevo senza alcuno sforzo otto piani a piedi senza ascensore”.
Ecco, io dopo un paio di rampe di scale mi sono sempre fermato un attimo. Anche più di uno.
Ricordo che anni fa andai a trovare un collega che aveva aperto un nuovo studio.
Salii le scale e bussai alla sua porta, un po’ trafelato. Per giustificare le mani sui fianchi e il sudore, quando mi aprì gli dissi: “madonna, potevi prendertelo al primo piano!”. Lui mi guardò strano: “Giovà, guarda che sto al primo piano veramente”. Mi guardai indietro ed effettivamente il portone stava proprio là, due rampe più giù. Allora pensai di essere semplicemente fuori forma. Ma chi può dire che non fossi già vecchio e non lo sapessi? Mia madre lo ricorda bene, un periodo in cui non aveva l’affanno. Io no.
In sostanza, un giorno, di un mese, di un anno imprecisato, mi sono semplicemente raggiunto.

sabato 20 giugno 2020

Di cotolette, gelati ed estate in arrivo


Un sabato pomeriggio come questo, con la scuola appena finita e il sole che finalmente sembrava essersi accorto che l’estate era alle porte, noi diciassettenni avremmo cercato l’amico più grande e un po’ tonto, ma che aveva già la macchina, per farci scarrozzare al mare. Io avrei insistito per portare l’ombrellone ma mi avrebbero preso in giro, persino quelli biondini con la pelle chiara che in mezzora diventavano una mortadella. Saremmo andati a Velia, al Lido Il Timoniere. Non so perché, in effetti. La spiaggia era stretta, il mare subito profondo. Forse per la colonia. Ma non è che ti lasciavano avvicinare, a quelle ragazze, ci stava lo steccato, le guardavi da lontano.
Il Lido a ogni nuova stagione era stato abbattuto dalle mareggiate, c’era solo lo scheletro di alluminio, e in giro tanti pannelli di gommapiuma rivestiti di fòrmica, che se ce n’era ancora qualcuno intero ci saltavamo sopra finché lo sfondavamo. Poi, verso metà luglio di solito lo sistemavano, ma un sabato pomeriggio come oggi non ci sarebbe stata neppure la possibilità di comprare un gelato. Io al mare prendevo sempre il camillino, quelli di una volta, quando c’era solo la vaniglia in mezzo ai due biscotti, fu solo più tardi che misero anche la cioccolata, comunque io mangiavo sempre solo la parte a vaniglia, l’altra la regalavo. Ma prima leggevo la curiosità che c’era scritta sopra. Ne ho imparato di cose, dai biscotti. E si vede, del resto.
Comunque al mare si facevano cose che adesso sembrerebbero quantomeno strane. Per esempio, usciti dall’acqua, ancora bagnati ci si rotolava nella sabbia per fare le cotolette impanate.
Si faceva anche un’altra cosa che ora non è più contemplata. Mangiare. Intendo mangiare seriamente. A volte la pasta asciutta, addirittura la carne, e poi l’insalata. Ricordo cetrioli sbucciati sulla spiaggia, pane e pomodoro, conditi con bottigliette di crodino in cui le mamme mettevano olio e sale.
E quando si andava con le famiglie, c’era una cosa che oggi sembra forse lontana, ma allora non mancava mai. Prendere le botte. Il bagnasciuga sembrava una pista di atletica, con le mamme che rincorrevano i figli e se questi per caso riuscivano a distanziarle partiva il lancio del sandalo, del “chianiello”, specialità in cui la mia era campionessa olimpica.
Ma in un sabato come questo, già più grandi, saremmo andati solo noi amici. E avremmo fatto lunghe camminate, di solito la più gettonata era da fiume a fiume, cioè da una foce all’altra dei corsi d’acqua che si gettano nel mare fra Ascea e Casalvelino. Raggiunto il fiume, lo avremmo ripercorso per un po’ a ritroso, saltando sui cubi di cemento che ne delimitavano il corso, qualcuno di noi avrebbe raccolto un po’ di quelle piante fluviali, una specie di canne con una fioritura marrone cilindrica, che chiamavamo “i cazzi”, chissà quale fosse il nome giusto, e che negli anni ottanta le trovavi nelle case, nei vasi, come piante ornamentali di dubbio gusto.
Ci saremmo fermati ogni tanto, per tuffarci, e poi di nuovo a fare le cotolette, idioti e felici, finché il sole fosse calato, e a quel tempo non c’erano telefonini per immortalare i tramonti, ma penso fossero belli anche allora. Quando saremmo tornati in macchina, avremmo un po’ preso in giro il parcheggiatore, un signore anziano – magari non lo era, ma ci sembrava così – con un berretto, piuttosto scorbutico, ma sono certo che lo avremmo riempito di chiacchiere e non gli avremmo dato una lira. Qualcuno diceva che a chi non pagava rigava la fiancata, ma tanto la macchina non era la nostra. Lo stesso valeva anche per la sabbia che portavamo sui sedili, “ma vi siete puliti bene?” chiedeva il malcapitato di turno, “hai voglia!”, rispondevano quelli che stavano seduti dietro, e si davano botte coi gomiti per non ridere. E si tornava a casa, coi finestrini spalancati e una mano fuori, a coppa, dicendo a quello che guidava di andare più veloce. Perché non so se lo sanno i ragazzi di oggi, ma l’aria nel palmo della mano, a una certa velocità, prende la forma di una tetta.
E per un gruppo di ragazzi così cretini, che invece di corteggiare le ragazze passava le giornate al mare a fare le cotolette e a schivare chianielli, quello era l’unico modo per toccarle, sicuro.

domenica 22 marzo 2020

Un bel respiro.

Ci sono tanti modi di scrivere.
Il post sui social, breve se ironico, icastico, più lungo se contiene delle riflessioni.
Quello sul blog, che permette un ragionamento articolato, complesso, confidando che chi ti legga non sia soltanto uno a cui per caso, scrollando un feed, gli sia capitato davanti un tuo scritto, ma che sia venuto a cercarti con l'intenzione di soffermarsi insieme a te.
Poi c'è il messaggio su whatsapp, le emoticons, la condensazione di uno stato d'animo.
C'è il racconto, che è un esercizio feroce di tecnica e cuore, e il romanzo, il dipanarsi di una storia che si intreccia con la tua, tanto che alla fine confondi realtà e invenzione, e quei personaggi entrano a far parte per sempre della tua vita.
C'è la scrittura per il teatro, gioco di parole, e quella per il cinema, gioco di sguardi.
Poi ci sono i bigliettini di auguri, quelli che se devi scriverli per un invito di cui avresti fatto volentieri a meno si riempiono di frasi fatte, e se invece sono per una persona a cui tieni davvero vorresti tanto essere originale, per non disperderti in tutti gli altri auguri che riceverà da altri che, inevitabilmente, avranno fatto il tuo stesso ragionamento.
E ci sono i post-it, a ricordarti quello che devi fare, che se li scrivi per te stesso, chissà perché, ci metti anche la tua firma, in calce, forse per dare autorevolezza al consiglio, oppure per tenere presente che, va bene, è una cosa che ti è stata consigliata dal sé narrante, non prevede sanzioni, puoi anche procrastinare. E tu sei bravo a procrastinare. Come stamattina, che ti eri detto che volevi lavorare e poi: "ma è una vita che non aggiorno il blog!", e allora ti sei inventato questa riflessione sulla scrittura, che per te è come respirare.
E in questi giorni di quarantena per il coronavirus, non c'è modo migliore per affrontare l'ennesima giornata di ansia che provare a fare un bel respiro.

G.