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lunedì 22 ottobre 2018

Quella porta


E sei di nuovo davanti a quella porta.
E’ un varco, certo: ma sarà una via d’entrata o d’uscita?
Tu non lo sai, ma forse neppure t’importa.
Ormai per te è un’abitudine.
Dopotutto, star lì, con le gambe penzoloni, la gonna ampia oramai trapassata dal tempo e dalle pietruzze e terra che l’hanno lacerata, accovacciata davanti al vecchio portone di legno tarmato, è divenuta un’abitudine.
Magari ti fa star bene, magari allevia il tuo dolore.
Senti di stargli più vicina, così. E chissà, un giorno potrà avvertirlo.
Ricordi bene, fin troppo bene, quei giorni luminosi in cui il portone era verniciato di recente, la tua gonna perfettamente alla moda, i capelli vaporosi e scuri, (rigorosamente annodati alla nuca) quasi quanto i suoi occhi.
E sai (come potresti non saperlo, d’altronde?) che il suo sorriso smagliante era rivolto a te, le mani si stringevano nervose attorno alla catenina che ti aveva donato, quel buffo delfino, che pareva esser simbolo della libertà, a sua detta.
Anche se a te importava poco o nulla, poteva essere tranquillamente un’aquila o una donnola, l’importante era colui che l’aveva tenuta tra le mani, prima di allacciartela attorno al collo.
E quella scena sembrava essersi avvoltolata attorno al tuo cuore, quasi a soffocarlo, poiché ogni volta ne avvertivi le pulsazioni, ma poi poggiando le dita tremanti sul petto sparivano, e ti mancava il fiato.
Sentivi di stare andando in frantumi, come un’inutile biglia di vetro, schiacciata, pestata, fino a cadere rovinosamente in mille pezzi, piccole schegge d’anima in cui ti specchiavi, distrutta e divisa.
Ma poi pensavi che tutto ciò aveva un che di inutile: dopotutto, chi non aveva subito delusioni, nella propria vita?
Non potevi parlarne con nessuno; e no, non certo per la solita stupida mancanza di fiducia, o chiusura, mestizia, no, no, affatto.
Il guaio era che nessuno dei tuoi amici aveva mai potuto vederlo.
Eppure lui c’era, eccome, eccome se c’era, sostava lì, tu ne eri certa, gentiluomo d’altri tempi, ridente e fuggitivo, una Silvia di Leopardi, o forse più rassomigliante all’Infinito, così incomprensibile eppure palpabile dal poeta stesso.
“Tu vedi i fantasmi.” Ti dicevano. Arricciavi il naso, poi ridevi. I fantasmi non esistono!
Però, alla sera, eri portata a ripensare a quelle parole.
Com’era possibile, per quale motivo si era sposato, aveva dei bambini, e in base a quale fenomeno il suo volto pareva essere solcato da rughe?
Forse allora era vero: doveva essere uno spettro. D’altronde, quegli abiti erano inusuali, nessuno li portava, per non parlare poi dei capelli!
“Ma io non posso aver amato uno spirito!” Ti rimbeccavi.
Ma lo avevi amato davvero? Ormai non ricordavi più: la memoria giocava brutti scherzi. Beh, dovevate amarvi, altrimenti non saresti mai rimasta su quello scalino, ogni singolo giorno, ogni istante!
Se è così, però, dov’erano i ricordi di lui?

 Sbuffi, strizzi gli occhi, avvolgi i capelli tra le dita, e ti sforzi di rimembrare. Sovvengono immagini di dolore, il suo volto che non è più felice, ma rigato da lacrime. Sembra soffrire tanto, valuti. “Allora dev’essere la sua morte, quella che ricordo!” pensi. “Sì, è così; lui se n’è andato tempo fa, altrimenti come si spiega il vuoto nella mia mente, il fatto che non sia più qui con me?” Convieni, e annuisci compiaciuta.
Poi, però, l’uscio tarmato si spalanca, e ne esce un ragazzino con un sorrisetto beffardo, poco più giovane e basso di te. Fa una smorfia, poi ride e scappa via. Somiglia davvero tanto a lui.
Allora hai un lampo: quella casa è disabitata. E il bambino è il dispettoso nipotino di lui. Venuto per il suo funerale, assieme a tanti parenti, pronti a compiangere il defunto.
Sorridi: tu e gli altri lo dimenticate così spesso!
Finalmente riesci a capire come mai ti trovi lì, e perché la tua gonna sia sdrucita, le strade diverse e la porta fatiscente: sei venuta a riprenderlo.
Fai i salti di gioia, quasi vorresti urlare di felicità, ma poi ti ricordi che i fantasmi non parlano. Allora rotei gli occhi, fai spallucce, poi come al solito stringi a te la catenina, e il delfino. Avverti una pulsazione. Il tuo cuore? Ma il tuo cuore batte?
Sei stufa di tutte le domande retoriche ed esistenziali che la tua mente vuol porsi.
Saltelli a mezz’aria, ripercorrendo le vie che la tua mente pare non aver mai dimenticato.


Il cimitero è scuro, molto.
Hai sempre avuto un timore irrazionale dei morti, quasi potessero tornare a ghermirti. Ora sai che la Morte non fa altro che stringerti tra le sue braccia. Ed è molto, molto più permissiva della vita.
Ti vuol bene, lei.
Lascia che tu possa tornare da chi hai amato, per una degna accoglienza.
Cerchi di afferrare la maniglia, poi sbuffi, quando la tua mano, incorporea, le passa attraverso, come un fulmineo pensiero.
Allora lo vedi.
Tuba, bastone, sorriso e fossette.
Ti sei sempre sentita piccola, accanto a lui.
Stringi il tuo ciondolo, con nervosismo.
Lui sorride, alla vista di un gesto così risaputo.
Ti si avvicina, e ti sembra quasi di poter tornare a trattenere il fiato.
Poi intreccia le sue dita con le tue, in un groviglio di mani e un delfino, talmente fuori posto!
E incatenate gli sguardi, come tanti anni prima.
Allora scegliete di ricominciare.
In un mondo dove sarà possibile, dove non ci sarà una netta linea di separazione tra voi.
E siete sempre stati due caparbi, voi.
Saltate.
Sparite.
Ed è subito vita.

“Complimenti, Laurito, è davvero un bel testo. Non sapevo facessi pensieri così profondi!” La tua professoressa ti squadra sorniona, tu ricambi l’occhiata, truce, e rispondi che hai sempre amato i paradossi, anche i più assurdi. Sei tu stessa un paradosso, commenti.
“Se questo può servirti a scrivere così, allora osanniamo il Gatto di Schroqualcosa!” Commenta la tua vicina di banco, con aria da saccente. Le assesti una gomitata.
“Ma dimmi, dove trovi l’ispirazione?” Domanda l’insegnante, con aria di voler carpire uno dei segreti più oscuri della Nazione.
“Scavo dentro di me: tipo becchino. Come nel mio racconto, no?” Ti squadrano basita. Alzi gli occhi al cielo.
 Fai sempre così, dopotutto. Qualche battuta stupida, che quelle belle vengono sempre e solo quando sei a casa da sola, e allora sbuffi, addenti un altro boccone di quel gustoso cornetto, sapendo che tu e la vita sociale siete due poli opposti, e allora che ti resta se non un po’ di ironia?
Okay, dopo quella (chiamala…) battuta, hai paura della valutazione della prof.
Inizi a stritolare convulsamente la tua collana con il pendente a delfino.
“Se mi prometti di evitare il tuo solito sarcasmo, meriti 10.”
Ricacci il fiato, scalci contro la tua amica per l’emozione (povera lei! Quella che sa sempre da chi ti ispiri, l’amica geniale, copiata spudoratamente dalla Ferrante) e allenti la presa dalla caten…
Un attimo. Come mai si trova al tuo collo? La indossava la protagonista del tuo racconto, non certo tu. Ma quali poteri di immedesimazione, ti dici.
Automaticamente lanci uno sguardo alla porta: lo vedi.
Allora scuoti la testa, e sotto il suo sguardo ricominci a scrivere la storia di te.
Amor in mortem. E sì, l’unica cosa certa in questo testo è che adoro i paradossi.
FINE.

Rosaria Eleonora Laurito (cioè mia figlia...)



3 commenti:

  1. Mi è venuto ignobilmente in mente Il sesto senso... ma lo ha scritto tua figlia?! No dai!!...

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  2. Lo ha scritto mia figlia, e io l’ho esposta contro il suo volere 😊

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    1. Tua figlia è fantastica... ma non poteva essere altrimenti.. ;)

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