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venerdì 28 ottobre 2022

In giustizia

 Guardarsi in giro in tribunale è come essere in una stazione ferroviaria.

Incroci per un po’ le vite degli altri, alcuni turisti per caso, altri pendolari come te. C’è l’avvocato che ha tante cause, entra ed esce dalle aule spavaldo, e quello che ne ha una sola, forse in assoluto, e inchiodato alla sedia scrive verbali interminabili di parole inutili e suda, un po’ in imbarazzo quando tocca a lui come se attendesse chissà quale esito e invece è solo un rinvio. C’è la collega graziosa con gli occhi dolci e chissà perché sempre un po’ tristi, e quella disinvolta che pattina nel corridoio su tacchi alti come sgabelli. C’è il testimone illuso che sbuffa perché credeva l’orario sulla citazione fosse rispettato e il cancelliere che trasporta il carrello coi fascicoli proprio come il portabagagli sul binario. Ci sono i coniugi che stanno per separarsi, come due che partono per destinazioni opposte, lei con gli occhi rossi di pianto, lui che passeggia in cerchio per stemperare l’ansia e quando le passa davanti lancia uno sguardo in tralice, scuote la testa e prosegue lungo la circonferenza che racchiude il destino della loro storia. C’è l’anziano avvocato che pur in pensione da decenni non riesce a staccarsi del tutto dal lavoro di una vita, come dicono càpiti ai fantasmi, e ci sono i giovani praticanti smarriti che toccano con mano la differenza fra le serie tv americane e la realtà. Gente che va, non sa dove stia andando ma va lo stesso, perché l’importante è sentire che vai, come cantava qualcuno. 

I tribunali sono come stazioni ferroviarie e c’è pure l’avvocato curvo sul telefono che scrive un post su quel che vede, per ingannare l’attesa che venga chiamato il proprio processo se arriverà il giudice, perennemente in ritardo proprio come il treno che dovremmo prendere e forse non prenderemo mai. E magari meglio così, perché come per il viaggio, in fondo l’attesa della sentenza è essa stessa sentenza.

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