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domenica 26 maggio 2024

Presenze

Oggi per la maggior parte i bloggers sono persone che amano scrivere, raccontare.

All’inizio degli anni duemila, boom dei blog, l’importante era soprattutto raccontarsi

Non contava lo stile, neppure se il contenuto fosse davvero interessante. Per la prima volta si sperimentava il brivido di condividere quotidianamente i propri pensieri con un numero indefinito di potenziali lettori. In pratica si lasciava su una panchina il proprio diario segreto, con accanto la chiave del lucchetto. E il brivido era anche dall’altra parte. Entravi nel parco della rete, dove trovavi migliaia di panchine e altrettanti diari con le loro chiavi. Tu aprivi e leggevi.

La differenza coi social venuti poi era netta: facebook è un libro di facce, chi scrive sa che sarà riconosciuto, chi legge sa chi è l’autore, manca il mistero. I bloggers invece usavano quasi sempre dei nicknames, era parte del fascino.

Solo che anche lì, come nella realtà, c’erano parchi famosi e ricchi di attrazioni e piccole aiuole un po’ incolte e nascoste dietro un vicolo, dove non si passava quasi mai. Anche lì c’era una panchina, ma non vi si sedeva nessuno a leggere.

Ricordo che capitai sul blog di una giovane donna, o almeno questo si capiva dai suoi scritti.
I suoi post erano piuttosto cupi, lo sfondo scuro, la grafica poco accattivante. Non aveva mai un commento e se ne lamentava, ma continuava a scrivere, ogni giorno, anche più volte. Nei suoi post si rivolgeva ai visitatori della pagina, evidentemente il contatore delle visualizzazioni le segnalava delle presenze. E come fossero davvero presenze, fantasmi, li trattava. Si sentiva medium, li evocava, “so che ci siete”, li pregava di apparire finalmente, di lasciare una traccia concreta. 

Detta così sembra anche una trovata, ma non c’era la minima ironia, anzi. Leggendola mi destava imbarazzo, come spesso fa la solitudine quando è esibita. Più volte fui tentato di lasciare un commento, ma non lo feci mai sembrandomi un gesto compassionevole, non di reale interesse, anche se in qualche modo ero attratto in quella penombra e vi tornai spesso. Forse in quanto anche io presenza venivo evocato senza possibilità di sottrarmi. 

Poi il sentiero si richiuse, la vegetazione lo nascose e me ne dimenticai. 
Mi è tornato in mente oggi, mentre pensavo di voler scrivere un post su questo blog ormai incolto e nascosto dietro un vicolo.

A volte penso che scrivere è come usare una tavola ouija. Non siamo a noi a scegliere le lettere, le parole, ma le presenze che noi evochiamo quando le dita battono sulla tastiera. Questo post potrebbe averlo scritto quella giovane donna di vent’anni fa, rimasta prigioniera in quell’angolo ombroso, per chiedermi di liberarla ricordandola.

Ma io non credo ai fantasmi, sono sempre trucchi. La tavoletta non si muove da sola sulle lettere, sono le dita del medium a sceglierle fingendo di parlare con la voce degli spiriti. 

Il post l’ho scritto io. Seduto nell’ombra.

mercoledì 17 aprile 2024

Oggetti e soggetti

 

Alle elementari avevo un compagno, Daniele, capace di una grafia davvero aggraziata. Dava alle lettere una particolare ondulazione molto elegante, ricordo certe elle in corsivo che sembravano vele al vento. Come le lenzuola nella Notte dei miracoli di Lucio Dalla.

Ci provavo, a imitare il suo modo di scrivere, ma riuscivo solo in parte a ricordare quello stile che era evidentemente innato. Come tutte le grafie, ciascuna peculiare e perciò mai esattamente riproducibile.

Un giorno, però, lui si era alzato dal banco e aveva lasciato lì la penna. La ricordo ancora. Una grinta blu col cappuccio bianco. La presi e iniziai a scrivere con quella. Lasciava un tratto di un azzurro insieme profondo e tenue. Le lettere cominciarono a fluire dall'oggetto al foglio esattamente identiche a quelle di Daniele. Che magia!

Questo piccolo episodio dimenticato in chissà quale meandro della memoria mi è ritornato in mente ieri sera, mentre guardavo l’episodio di una serie in cui il protagonista, un truffatore, per imitare al meglio la firma di un amico gli aveva rubato la stilografica.

Chissà se davvero gli oggetti conservano una traccia dell’anima di chi li ha usati a lungo? Del resto è il fondamento della psicometria, la pseudoscienza in base alla quale, a cavallo fra l’ottocento e il novecento, sedicenti veggenti sostenevano di poter rintracciare persone smarrite o uccise toccando oggetti che erano stati utilizzati da loro.

Non so rispondere. La ragione mi dice che non può essere. Il mio ricordo delle elementari non è altro che una suggestione. Eppure sfogliando libri presi in prestito da amici che li hanno amati ho avuto l’impressione di leggerli coi loro occhi, di provare anche le loro emozioni. Suonando la chitarra di un maestro gli accordi erano più cristallini. Indossando una giacca di mio padre quand’era giovane mi sono sentito più bello.

Sarà che mi affeziono agli oggetti, e per questo motivo tendo ad attribuire loro un’anima. Ché mica ci si può davvero legare a qualcosa d’inerte, privo di vita. O magari sono loro ad averla e a trasmettercela, se siamo disposti a riceverla. Oggi, per esempio, non so come mi è venuto di scrivere un post, non lo facevo da tanto. Forse è stata la tastiera del computer a volerlo fare, servendosi delle mie dita.

O più semplicemente, non avevo nessuna voglia di lavorare. 

E allora ogni scusa è buona.