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giovedì 27 marzo 2014

Elogio della razzìa

Leggevo sulla seconda di copertina dell'ultimo Dylan Dog che l'attuale curatore, Roberto Recchioni, da ragazzo, per conquistare le donne, faceva il figo recitando poesie di Tiziano Sclavi ("la Ballata della Morte") pubblicate all'epoca sui primi albi a fumetti dell'Indagatore dell'Incubo.
Lo capisco bene, del resto io ho Groucho nell'avatar e spesso ho sfruttato spudoratamente le sue battute per fare il simpatico, ottenendo spesso, per la verità, con le donne, risultati pari ai suoi. Chi avesse mai letto Dylan sa quali.
Ma credo sia un vizio generalizzato, chi è che non ha mai citato più o meno inconsapevolmente Oscar Wilde quando la tensione pur insostenibile era piacevolmente adrenalinica ("questa suspense è insopportabile, speriamo che duri"), o Groucho Marx, quello vero, quando qualcuno invitava proprio noi poveri sfigati a far parte di un club che si presumeva invece esclusivo, e per tale ragione era proprio il caso di rifiutare, l'esclusività non era in realtà tale ("non accetterei mai di far parte di un club che mi accettasse fra i suoi soci"), o Riccardo Fogli, quando aveva tanta, ma tanta voglia di lei (canzone principe citata nei testo degli sms di un particolare ceto di corteggiatori, spesso la risposta potrebbe suonare Pooh, ma non il gruppo).
Molte frasi sono così sedimentate nella nostra cultura da essere ormai in una sorta di "cloud" dal quale ognuno può attingere all'occorrenza senza ormai neppure rendersi conto che non sono farina del suo sacco. E così accade, di converso, anche a chi si accinge a comporre qualcosa, che sia un testo o una musica, dove inevitabilmente si vanno a ripescare dal proprio inconscio armonie già create da altri, e rielaborate credendole atto di pure invenzione e non semplice rinnovazione.
Ho intitolato un mio romanzo "Una pietra sopra", poi ho scoperto che era già un titolo usato da Calvino. Non so se vantarmi di aver avuto lo stesso pensiero di quel grande scrittore, o invece ammettere che senza rendermene conto avevo fatto mio un titolo magari visto di sfuggita. Chi può dirlo? Ormai quanto più ci sforza di essere originali, tanto più si è invisi, meglio, molto meglio, confondersi nella massa, dire tutti le stesse cose, perseguire l'errore, ribaltare il vecchio detto e uniformarsi all' "imparando si sbaglia". Bella questa, ma l'avrò detta davvero io per primo? Se avete notizia che si tratti di un plagio, fatemelo sapere, sono curioso di sapere con chi, oltre alla buonanima di Calvino, divido le sinapsi.
Del resto, come si fa a sapere con certezza se una determinata frase è stata già detta, se una musica è stata già composta, e così via? Le combinazioni matematiche, seppur numerosissime, non sono infinite. Sicuramente se si chiudessero cento scimmie in una stanzetta con altrettante macchine da scrivere, a battere all'infinito sui tasti, oltre ad esserci una puzza terribile a un certo punto qualcuna avrebbe composto i sonetti di Shakespeare.
Ottimo questo esempio, peccato mi suggeriscano sia già stato proposto.
Eppure io dovrei essere un esperto di citazioni, col mestiere che faccio.

lunedì 17 marzo 2014

Nella buona e nella cattiva morte


Per primi se ne accorsero negli ospedali. Dopo quindici giorni che non moriva più nessuno, mentre la media quotidiana fino ad allora era di diversi pazienti deceduti, sorsero i primi sospetti. Perché non è che i degenti migliorassero, anzi le situazioni ormai senza speranza si erano moltiplicate tanto che non c'era neppure più posto nei reparti di terapia intensiva e i malati terminali venivano riportati nelle corsie in attesa del trapasso. Che però dall'inizio di marzo non avveniva più per nessuno. 
Non ci vedeva chiaro neppure la polizia. Dopo impressionanti incidenti stradali dalle lamiere contorte venivano estratte persone a brandelli, in fin di vita. Ma, appunto, in vita, quando la dinamica del sinistro, la violenza degli impatti, avrebbero fatto presagire la conseguenza purtroppo più logica.
Il tempo passava, i casi di "vite sospette" si moltiplicavano e la notizia divenne di dominio pubblico. Alla prima comprensibile euforia si sostituì però, mese dopo mese, un'amara consapevolezza. Era vero, per una qualche ragione non si moriva più. Però non si smetteva di soffrire. E più il male progrediva più il dolore aumentava. I casi di guarigione furono davvero minimi, mentre cresceva giorno dopo giorno la schiera di coloro che se erano ancora vivi era soltanto perché i tempi chissà perché erano cambiati, ma di fatto non erano molto diversi dai morti, salvo che per la circostanza che rimanevano ancora flebili segnali vitali. 

Due anni dopo, i costi sociali erano divenuti insostenibili, sia per lo Stato che per le famiglie.
Quasi in ogni casa vi erano una o più persone diversamente vive, cioè che in normali condizioni sarebbero già decedute. Negli ospedali si decise anche di staccare i macchinari per la maggior parte dei pazienti e solo quelli le cui famiglie erano particolarmente agiate potevano permettersi di mantenerli ancora alimentati artificialmente. Perché è vero che pure se veniva "tolta la spina" il malato non moriva lo stesso, tuttavia le sofferenze si moltiplicavano e pure gli antidolorifici erano diventati merce rara e solo al mercato nero, a costi elevatissimi, ci si poteva procurare dosi di morfina per provare ad alleviare ancora, per quanto possibile, lo strazio degli infermi. 

La chiesa si adoperò per quanto fu possibile, ma ad un certo punto fu evidente anche a loro che miracoli non se ne potevano fare. Fin quando fu chiaro anche alle autorità - a molte persone di buon senso era stato chiaro fin da subito - che era meglio consentire di mettere fine a questo strazio nell'unico modo possibile. Ma chi ci aveva provato, mosso da compassione per i propri cari, era stato addirittura processato per omicidio, quindi si attuava il classico ipocrita principio del "si fa ma non si dice", col corollario che porre fine alle sofferenze indicibili di un essere umano piuttosto che apparire appunto un grande gesto di umanità, veniva ufficialmente vissuto come un crimine.

 Ma l'opinione pubblica ormai unanime ebbe un ruolo fondamentale nel convincere anche i governanti dell'ineluttabilità della scelta e, quindi, finalmente, si ebbe anche in Italia una legge  per consentire l'eutanasia e di colpo questo incredibile fenomeno, così come era iniziato, cessò. E così almeno in questo racconto si tornò a vivere e morire come era giusto, secondo quanto era scritto nel destino di ciascuno, senza inutili accanimenti, ipocrisie e pregiudizi.

venerdì 7 marzo 2014

L'angolo acuto

Spesso ti spingi più oltre, mentre se fossi stato intelligente ti fermavi un attimo prima.
E' capitato per quella risposta pungente che proprio non hai saputo trattenere.
O per quelle quattro chiacchiere amichevoli che poi sono diventate un'altra cosa.
E ancora per quell'insistere a mostrare chi sei davvero, nel bene e nel male, dimenticando che l'apparenza, in questo mondo, è la vera sostanza.
E così continui imperterrito a dire come la pensi, sempre e comunque, ma poi devi affannarti ex post per mitigare gli effetti del tuo essere te stesso, e siccome tutto ciò si sussegue da decenni i rimedi sono in esaurimento, come te del resto.
Così quando non riesci a prendere sonno, diventa sempre più un vano esercizio di stile ripensare a giorni freschi di primavera, quando bastava parcheggiare la 500 davanti casa sua per dimenticare tutto il resto, e, a pensarci bene non c'era altro, mentre ora c'è il resto di niente.
Quando con due accordi di chitarra ad orecchio riuscivi a incantare te stesso e il mondo.
E ora neppure una sinfonia di note potrebbe rendere l'emozione di una radiolina a transistor che suonava la nostra canzone mentre scendevamo le scale che portano al mare.
Perché ti trovi in una terra di nessuno, un cul de sac dal quale è impossibile tornare indietro.
Tutte le direttrici convergono in un solo punto, la strada è sbarrata.
Un vicolo cieco, un angolo acuto, di 45° gradi.
Quanti i miei anni fra qualche giorno.