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mercoledì 23 dicembre 2015

Di chitarre, anni, foto e Natale alle porte.

Dimmi, senza me come ti va?
Questa domanda senza risposta girava in loop in una mia canzone di più di vent'anni fa.
Brano dedicato ad una ragazza che era stata mia, o forse lo era ancora, chissà, è passato così tanto tempo che i ricordi si confondono e confondono il corretto fluire del tempo.
Sono certo soltanto che c'eravamo io, una chitarra, la foto di lei, e un manuale di diritto che mi guardava storto, muoviti, studia, che il tempo passa!
Ma per me il tempo era già passato, le parole di quella canzone mi proiettavano nel futuro in cui io, ripensando a quei giorni, mi sarei chiesto di lei, della sua vita proseguita senza di me.
Perché il nodo è sempre questo, la mia assoluta incapacità di vivere il presente.
C'è stato un attimo in cui mi sono sentito felice, una fessura, una crepa.
E subito ho pensato che sarebbe stato bello morire.
La morte migliore, mentre sei felice.
Ma poi mi sono chiesto: passiamo la vita a rincorrere qualche attimo di gioia e proprio allora vogliamo andarcene? Non dovrebbe essere invece lo stimolo per vivere con ancora maggiore intensità, consapevoli che quel minuscolo attimo ci ha dato la prova che in fondo la felicità esiste ed è  a portata di mano?
Non sono riuscito a darmi una risposta, la crepa si era già richiusa, l'occasione perduta.
La chitarra è sempre con me. Ho strimpellato due strofe di quella canzone, davanti a me nessuna foto a sorridermi con dolcezza, nessun manuale a minacciarmi, solo un piccolo calendario a ricordarmi che il tempo è passato fregandosene altamente di me e delle mie fisime.
Tra due giorni è Natale, non va bene e non va male.
Ecco la risposta.

lunedì 30 novembre 2015

Vacanze romane

Nella vita non sei così come sembri leggendoti.
Lei, con questa frase, mi poneva di fronte ad un'equazione che non avevo mai considerato: che pur mettendo tutto me stesso nei miei scritti, altri potessero comunque percepire di me un'immagine distorta, o in ogni caso diversa dal vero. 
Scrivere e vivere son cose diverse.
Potevo scherzarci, su questa frase, o fare il filosofo, declinare l'ovvio. 
Ma che bastasse un sottile foglio di carta a frapporre uno iato così ampio fra l'apparire e l'essere mi lasciava spiazzato.
Perché lei non parlava di differenze "estetiche", non era questione pirandelliana di nasi inaspettatamente pendenti o di essere più o meno fotogenici. 
quell'affermazione che mi aveva così colpito andava a radicarsi nelle profonde insicurezze che spacciavo per contenuti di qualità dei miei testi sempre ironicamente autobiografici. 
Mentre la gente continuava a passare frenetica al di là della vetrina del caffè, da noi il tempo rimase per qualche istante sospeso. 
In quella sincope ripensai ad Escher, pesci che si facevano uccelli che si facevano cielo. Con il medesimo tratto di matita. Questioni di prospettive e di percezioni, immagini nelle quali ciascuno vede quel che vuole vedere. Anzi, quel che l'artista vuole si veda.
Le sue labbra erano lievemente schiuse. Non che io sapessi se stessero per parlare ancora o lo avessero appena fatto.
Comunque fosse, la precedetti.
È come un trompe l'oeil, risposi, ricomponendo la crasi.
Il tempo riprese a scorrere anche tra di noi, continuammo a parlare di quel che c'era stato prima e di quel che c'era stato dopo quel prima.
Poi provai ad offrire per entrambi ma lei non volle. Siamo a Roma e si fa alla romana. Uscendo, le nostre strade si divisero. Una coppia di ragazzi giapponesi proprio davanti al locale si stava scattando un improbabile selfie e colse in uno di noi due che andava un sorriso che era una promessa, ma che l'altro forse non fece in tempo a notare.
Ma il lettore può solo immaginare chi fu, anche se una volta ancora fidarsi dello scrittore può essere solo un inganno.

venerdì 13 novembre 2015

I sogni son desideri

E se un genio (o il papa al quale hai tolto una spina dal piede) ti chiedesse di esprimere un desiderio, cosa chiederesti? E via a pensare, l'immortalità forse, ma anche la salute perché se stai di merda e non muori mai, insomma... E però così son due desideri, non si può! Allora la pace nel mondo? Vabbè vorrei vedere se hai un solo desiderio  e c'è Scarlett Johansson che può aspettarti a letto con indosso solo Chanel n. 5 quanto te ne può fregare dei bombardamenti in Krakhozia!! Allora il sesso? Ma se deve essere così poco spontaneo, allora non serve il genio, basta la carta di credito... L'amore, allora? E però dovrebbe essere eterno, e poi torna il problema della salute... Insomma, chissà quanti si saranno fatti qualche volta questa domanda, nel corso dei secoli, e la risposta giusta non è stata mai trovata, ma forse era a portata di mano, ed era: che cazzo ci pensiamo a fare, mica accadrà mai che un genio (o il Papa) ci daranno questa opportunità. Sono solo giochetti per ingannare la mente, come parlare del tempo, candy crush, le religioni.
Ma se davvero dovessimo darla questa risposta, io mi rifarei a quanto sentii in una puntata dei Simpson (quella in cui al bar, ubriachi, ipotizzavano appunto che il Papa, tolta la spina, desse loro questa opportunità). Donne, immortalità, pace nel mondo, tutte opzioni che non li convincevano appieno.
Fino a quando, alla illuminante proposta di Homer, si trovarono finalmente d'accordo.
Camicie ben stirate.

P.S.
Siccome l'ho provato stanotte, lo consiglio a tutti. Un desiderio da esprimere, se mai dovesse capitarvi, è svegliarvi sempre dai brutti sogni.

martedì 27 ottobre 2015

Il nodo di scambio


Avevo già i miei dubbi, ma fu esattamente dieci anni fa che realizzai che la politica non era fatta per me. Quel periodo in cui, giovane avvocato intriso di concetti etici, mi illudevo che la disponibilità, l’impegno, la passione, fossero carburante sufficiente a spingere la macchina del consenso. Dovetti invece accorgermi che le cose non stavano affatto così, che ciò che conta per la gran parte degli elettori è ben altro. Potreste pensare al voto di scambio, all’opportunità di un posto di lavoro che, nel nostro sud flagellato dalla disoccupazione, è sicuramente stimolo più forte dei meri ideali. Magari fosse stato solo questo, lo avrei ben compreso e accettato. C’era dell’altro.

Avevo radunato alcuni amici, più o meno della mia età, quelli con cui avevo trascorso la giovinezza al paese e, davanti ad una pizza, provavo ad illustrare il senso della mia candidatura alle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di lì a pochi mesi; parlavo di condivisione, di speranza, di necessità di “entrare nel palazzo” perché solo dall’interno era possibile imprimere una svolta concreta, di lotta contro l’immobilismo atavico che frenava ogni possibilità di sviluppo del nostro paese ancora fermo, nella mentalità, al secondo dopoguerra.

Così chiedevo il loro voto, per provare a cambiare le cose, per “guardare avanti” (era questo il mio slogan). Uno di loro, però, che era rimasto silenzioso, al mio invito ad esprimere le proprie perplessità, mi rispose che sì, le cose che dicevo erano valide, però lui “doveva” votare per l’altro candidato, verso il quale aveva un forte debito di riconoscenza. Mi chiesi cosa mai gli avesse fatto di così importante, anche perché ricordo che veniva da me per ogni problema legale (aveva una piccola attività imprenditoriale) che io gli risolvevo, peraltro sempre gratis. Lui non volle rispondermi, e dopo i convenevoli, andò via. Qualche giorno dopo un altro di coloro che erano con me quella sera mi disse che gli aveva rivelato le ragioni del perché non intendeva votare per me ma per l’altro candidato. Perché questi gli aveva insegnato a fare il nodo della cravatta, e anzi, quando c’era un matrimonio e lui doveva mettersela, era persino andato a casa sua a stringerglielo.

Tralasciando il fatto che in quel momento se lo avessi avuto fra le mani gliel’avrei stretto io come si deve quel nodo intorno al collo, davvero non potevo crederci, ma l’amico davanti a me mi confermò che era proprio così, che nel raccontarglielo quello era assolutamente serio.

Colsi da quell’evento auspici negativi. Se un giovane si lascia convincere a votare per un candidato che rappresenta il passato per una ragione assurda come questa, non c’è speranza. A maggior ragione in quanto io, il mio amico, non l’avevo mai visto con una cravatta! Non è che si trattasse di un’esigenza primaria e quotidiana, eppure…

Gli auspici negativi si realizzarono, io persi le elezioni e insieme a loro ogni mia speranza di un cambiamento che, infatti non c’è mai stato.

Quell’amico lo reincontrai qualche anno dopo. Eravamo ad un matrimonio. Lo salutai ma non mi rispose, emise solo un grugnito. Si era mezzo assopito su una poltrona dopo aver onorato il menu e soprattutto la cantina del ristorante. Sulla camicia chiazzata scivolava, come un boa constrictor con la scoliosi, una cravatta a pois che a malapena arrivava sul suo addome prominente. La parte anteriore ben più corta della posteriore, che invece penzolava libera lungo un fianco. Il nodo, allentato, ricordava uno scarafaggio sorpreso dietro uno scaffale e schiacciato con una ramazza.

E intanto il suo “mentore”, eletto con il suo voto e quello di tanti altri, stava beatamente amministrando perpetuando l’andazzo degli ultimi cinquant’anni, dall’alto dei suoi meritevoli favori, come quello di aver insegnato da par suo al mio amico come annodarsi la cravatta.


venerdì 16 ottobre 2015

Un calcio ai ricordi

Passando, osservo alcuni ragazzi seduti davanti al bar. E penso che dovrebbero capire che per ovviare alla crescente disoccupazione giovanile non è una buona soluzione diventare dipendenti dell’alcol, che non è mai stato un buon datore di lavoro. Forse i primi tempi. Ma la ripresa non c’è mai. Faccio questa pseudo battuta e mi viene in mente il calcio, la mia gioventù, ripenso a quei giochi da adolescenti, quando si stabilisce che chi vince può dare un bacio al più bello/bella della classe. Ma non tutti i ragazzi capivano le regole del gioco. Infatti, capitava che quando il bacio lo dovevano dare a me, toccava non a chi vinceva ma a chi perdeva. Che ridere!
Così pure quando si facevano le squadre per la partita di pallone. E questa storia la voglio raccontare. I due capitani facevano la conta, e sceglievano a uno a uno i propri compagni, partendo ovviamente dai migliori. Io ero sempre fra gli ultimi. Umiliante, ma da accettare perché in applicazione della più stringente meritocrazia, fosse sempre così. Non dovevi abbatterti, era uno stimolo, dovevi lavorare duro per non essere più l’ultima scelta. E io ci provavo, mi mettevo ore e ore a palleggiare (non è che palleggiassi così a lungo, per ore ma sempre un palleggio alla volta), insistevo, tenevo duro, mi dicevo che sarebbe successo finalmente che il capitano avrebbe scelto me, non dico prima di tutti ma almeno non proprio per ultimo.
Solo che le cose non miglioravano, anzi, se possibile peggiorarono. Sarà stata la metà degli anni ’80, le prime partite sul nuovo campo “Cretazzi”, all’epoca ristretto con le porte all’altezza delle aree di rigore, per un torneo di calcio a cinque. Solo che eravamo in undici. E, neanche a dirlo, dopo che erano stati scelti i primi cinque di ogni squadra, l’unico rimasto fuori ero io. A quel punto, perché il “dispari” giocasse comunque, interveniva una regola altamente democratica, quella del “tempo per uno”. Il soggetto superfluo diventava di colpo importante, perché la squadra con cui veniva schierato, sebbene per un solo tempo, giocava con l’uomo in più, quindi maggiori possibilità di coprire il campo, di avere un compagno sempre smarcato. Eppure non andò così, niente affatto.
Perché nonostante la superiorità numerica della squadra che mi schierava, il primo tempo finì invece tre a zero per la squadra con l’uomo in meno. Poi nell’intervallo il cambio di casacca e scesi in campo con quelli che stavano dominando. E che con me in più fra le loro fila, loro che stavano vincendo, persero la partita 4-3. Un capolavoro, una partita indimenticabile come quell’Italia–Germania mondiale del 1970 conclusasi con il medesimo risultato, e che mi costrinse a trarre le inevitabili conclusioni.
Da quel momento io e il calcio ci separammo consensualmente, rimanemmo amici, io presi in affido il divano e da quel momento da “sportivo” divenni appassionato davanti alla TV. Continuai a palleggiare, in gran segreto, nella mia cantina, e vi confesso che ci furono occasioni magiche in cui ne feci anche dieci, solo però se consideriamo validi i tocchi di ginocchio, di petto, spalla, muro e, non essendoci arbitri presenti, anche qualche fuggevole rimando di mano per non far cadere in terra il pallone.
Ci fu ancora qualche partitella uno contro uno a calcio-tennis, con le righe in terra tracciate con il carbone, contro qualche cuginetto di dieci anni più piccolo, dove strappai qualche pareggio, poi più niente, non potetti più provare quelle indimenticabili emozioni (perché anche quelle negative lo sono, e si dimenticano ben più difficilmente); ad esempio ricordo ancora a distanza di oltre trent’anni di quando capitavo in squadra con persone che non mi conoscevano e quindi all’inizio mi passavano fiduciose la palla, e io mi impegnavo pure a scartare l’avversario ma non ci riuscivo quasi mai, e allora i passaggi in mio favore si diradavano fino a cessare del tutto, allora chiamavo la palla a gran voce, ma non me la davano mai, e alla fine non avevo più neppure il coraggio di alzare il ditino mignolo e chiedere per piacere, tanto era inutile, a meno che in squadra non ci fosse qualche amico vero, che aveva compassione e allora me la passava comunque mentre tutti gli altri intorno, cercando di non essere visti si facevano la croce, e qualcuno più sfacciato, quando c’era in ballo la pizza, diceva apertamente al mio amico che se mi passava la palla la cena la pagava lui. Cose così, che segnano. Almeno segnano loro. Gli unici “gol” venuti da me in una partita.
E credetemi, per queste cose non c’è riscatto. Quando mi sfottevano, qualcuno che mi voleva bene li apostrofava: “voi saprete giocare a pallone, ma lui a scuola va meglio di tutti voi!”. Ma era peggio ancora! Perché io – e chiunque altro – avrei volentierissimo scambiato i miei inutili dieci sulla pagella con un dieci sulle spalle come Maradona, Baggio, Antognoni, D’Amico, gli idoli di allora! Tutto il resto della mia vita, gli hobby, i talenti, non valevano quanto il poter essere protagonista su un campetto.
Addirittura, in quegli anni di enormi ristrettezze economiche dei nostri genitori, non potendomi permettere un paio di scarpe bullonate per poter partecipare alle sfide sul campo in terra battuta (con le “Tepa sport” da ginnastica che usavano allora finiva lungo disteso al primo tentativo di calciare la palla), arrivai persino a barattare l’organo elettrico su cui avevo imparato a suonare, con un paio di Adidas usate, e pure di qualche numero in meno, ma coi così desiderati “tacchetti”! Chissà se le usai mai… Questo non lo ricordo più, che fossero ai miei piedi proprio in quella famigerata partita del 4-3? Forse si trattava di scarpe magiche, come nelle favole, stivali delle sette leghe, o meglio scarpine di Cenerentola, infatti mi dicevano che giocavo come una femminuccia (ma non era vero, tante ragazzine giocavano molto meglio, con più grinta e miglior tocco).
Comunque, già allora soffrivo di insonnia, e per addormentarmi avevo bisogno di pensare a “cose belle”, così suggeriva mia madre, e allora mi immaginavo al centro del campo, in serie A, osannato dagli spalti, e almeno nei sogni non avevo problemi a scartare gli avversari e infilare la palla nel sette col mio sinistro vellutato.
Poi gli anni passarono, e anche i sogni hanno una loro dignità, si devono nutrire di verità, se sono troppo incredibili ottieni l’effetto contrario, invece di rilassarti, ti incazzi ancor di più per quanto la tua vita sia in realtà totalmente diversa da loro. E allora, quando diventai troppo grande per potermi ancora immedesimare nei miei idoli che via via si erano ritirati per sopraggiunti limiti d’età, dovetti giocoforza cambiare soggetto alle mie sceneggiature oniriche. Il tempo era passato, misi una pietra sopra sul calcio giocato e iniziai a sognare di diventare cantautore. Scelsi Ligabue, stemmo sul palco per anni insieme, quasi tutte le notti, a scambiarci le canzoni, a duettare. Per un po’ dormii tranquillo, lì in realtà un po’ di talento in più rispetto al pallone l’avevo, ma neanche tanto, lo so. Infatti, Liga a Campovolo pure quest’anno ha fatto centocinquantamila spettatori paganti, mentre io ancora adesso la sera mi metto a suonare la chitarrina da solo, a casa, o davanti a mia figlia. Ma sentirla cantare prima di me i testi delle mie sconosciute canzoni mi riempie di gioia che non potete crederci, forse ancor di più di quando Luciano sente l’urlo della folla non appena arpeggia i primi accordi di “Certe notti”.

Magari uno di questi giorni io e lei proviamo pure due palleggi. Giusto due. Uno alla volta.

mercoledì 9 settembre 2015

Il blocco dello scrittore

Una volta sulla mia scrivania di lavoro tenevo un piccolo block notes.
Era l'epoca in cui volevo essere un autore teatrale, un nuovo Eduardo.
Allora il blocchetto mi serviva per appuntare, per non dimenticare alcune battute che mi venivano in mente per caso e che magari mi sarebbe tornate utili in una commedia.
La commedia poi la scrissi, era ambientata negli anni '70, parlava di emigrazione, sfotteva in maniera bonaria o forse non troppo l'emigrante di ritorno che si vantava dei suoi successi con i "poveracci" rimasti al paesello, sfoggiando abiti con i lustrini, auto di lusso e donne da sballo.
Poi veniva fuori che i vestiti erano ridicoli, l'auto affittata e la donna una prostituta caricata per strada.
Fu rappresentata, ebbe un ottimo successo, il teatro si riempì di ben settecento persone, stipate perfino nei corridoi e sugli scalini.
Poi finì lì, perché io sono fatto così. Come Paganini. Non ripeto. Neppure a tavola, perché se hanno fatto i piatti di quelle dimensioni una ragione ci sarà, è quello il quantitativo esatto di cibo.
Nel frattempo mi son fatto venire in mente mille altre cose, proprio per quella idiosincrasia alla ripetizione, e per quella innata propensione alla noia, in tutte le cose che faccio.
Solo che capita che le cose che tralascio per un po', come ad esempio questo blog, non appena diventano appena appena "passato", entrano in una categoria a parte, in cui la noia è spazzata via, bandita, sostituita da ciò che amo di più, in cui adoro crogiolarmi.
Il dolore dell'anima. La nostalgia, secondo la sua etimologia greca.
Allora il blog non è più quell'obbligo più volte autoimpostomi di scrivere sempre almeno un post a settimana, poi diventato ogni due settimana, poi un mese, fino a quando non era più un periodico ma un eroico (come si potrà definire ciò che si aggiorna ogni èra?). No, a quel punto il blog diventa l'occasione di ricordare, di rileggere uno per uno tutti gli splendidi (?) post scritti negli anni (ciò che giustifica il motto del blog, il mio onanismo letterario con il quale diventerò Cechov), e soprattutto di ripensare alle splendide (stavolta è vero) persone che questa attività mi ha dato modo di conoscere.
E poi subito mi è tornata la voglia di scrivere.
Il blocco dello scrittore si è trasformato nel block notes di una volta, uno scrigno di spunti, idee.
Ho messo su un cd, perché la musica è fondamentale per scriversi addosso.
Il mio gruppo preferito, i Supertramp. Nel loro album migliore, Paris live, del 1979.
E poi via, di nuovo in quel territorio sconosciuto della fantasia, a bordo della macchina del tempo.
Leggo i vostri commenti, i complimenti, faccio finta di nulla, una battuta, un sorriso coi due punti e la parentesi chiusa (all'epoca niente emoticons), uno che non ha capito l'ironia, e che ironia ("oggi è il giorno della memoria ma non ricordo cosa si festeggia"), e allora mi dà addosso per la mia improvvida leggerezza su argomenti del genere, qualcun altro mi difende, magari lo fa anche lei, la blogger che scrive in maniera incomprensibile eppure a me così chiara che sembra esserci un filo diretto fra i nostri cuori, ma forse mi sbaglio, mi illudo, è solo galateo di (fac)chat(a), poi è così giovane, facile all'esaltazione e ugualmente all'abbandono, avanti il prossimo da blandire con commenti speciali e post surreali, sarà una come me, che si annoia facilmente.
Poi magari il passato fa anche sui miei lettori il mio stesso effetto, qualcuno si fa vivo dopo anni, mi ritrova su fb, da qualche altra parte, ci chiediamo come si sta, che si fa, niente, che vuoi, le solite cose, scrivo ancora, certo, per sentirmi vivo, faccio le solite battute che rimani perplesso, poi sorridi, talvolta ridi e allora sì che sono felice, amo vedervi ridere, ma non sempre è facile, che al di fuori di questo rettangolo c'è la vita vera, quella delle file, delle analisi, delle bollette, ma anche quella degli abbracci veri, non di carta, e degli odori, dei profumi, dei colori, la guerra dei sensi che colpisce ancora pure a 46 anni e rotti quanti ne ho io, la pace è ancora lontana, un'utopia, da rincorrere una volta ancora rifugiandosi qui, a scrivere, una volta a settimana (due? Un mese? Un secolo?), con la musica migliore nelle orecchie e le vostre parole di una volta nel cuore.
Grazie a tutti.
Sipario.
E il bis ve lo chiedo io. Magari non qui, che troppo tempo è passato.
Ma da qualche parte ci rincontreremo, sicuro.

domenica 12 luglio 2015

Persone d'epoca

Sono andato a pagare il bollo della mia 500 e quello dell'agenzia mi chiede perché non faccio le pratiche per farla dichiarare auto d'epoca. Ne avrei diritto, vista la data d'immatricolazione, e risparmierei di pagare la tassa. Pago e gli rispondo che per l'anno prossimo ci penserò.
In realtà già lo sapevo che potevo farlo, ma il problema è più complesso.
La questione è che io e la macchina abbiamo la stessa età. E, paradossalmente, più anni passano e meno voglia si ha di contarli, di dichiararli.
Io ho il vezzo di dirne, a chi me li chiede, sempre qualcuno in più, mi illudo che mi rispondano che non li dimostro. Peccato capiti raramente, e non è solo per qualche ruga in più e qualche capello in meno, ma anche perché non riesco più a stare al passo coi tempi, e si sa che da vintage a fuori moda il passo è breve. Non conosco le canzoni e i film del momento, mi sfuggono i modi di dire, non mi riconosco in nessuno dei movimenti politici attuali, non ho le emoticons su whatsapp, e così via.
E così quando sempre più spesso potresti essere anagraficamente il padre del tuo interlocutore, diventa sempre più difficile non accettarlo, opporvisi, fare come lo struzzo.
Magari l'anno prossimo la faccio davvero sta cosa dell'auto, e poi io e la 500 ce ne andiamo a fare un viaggio nei luoghi di una volta, chissà che da quei finestrini con la manovella non si possa vedere ancora quel mondo in cui ci trovavamo meglio, o almeno ci illudevamo fosse così.
Che c'è chi dice che il tempo in realtà sta fermo.
Siamo solo noi a passare.

lunedì 8 giugno 2015

Centro "malessere"




E’ un po’ di tempo che tutto sembra girare sempre e comunque per il verso giusto?

Il lavoro rende, i clienti pagano regolarmente, non serve sollecitarli, anzi ti fanno i bonifici senza che tu neppure glieli chieda? Che stress…

E non ne puoi più nemmeno di quei weekend perfetti, sempre bel tempo, mai una nuvola, locali giusti, camerieri cordiali, amici fidati, nessun’invidia o fastidio! Pure la squadra del cuore, da non credere, non sbaglia una partita neanche a venderla!

Così ti ritrovi la notte a dormire come un sasso, che non fai in tempo a stenderti e già sei nel mondo dei sogni (e che sogni! Donne meravigliose che cadono ai tuoi piedi, senza farsi nemmeno un graffio; e un successo dopo l’altro neanche fossi sveglio!), e la mattina quando apri gli occhi, fresco e riposato, e ti guardi allo specchio quasi non ti riconosci tanto sei in forma, possibile che solo per te il tempo scorra all’indietro? E che cavolo, non può proprio continuare così, c’è proprio bisogno di staccare! E allora siamo proprio quello che fa per te. Prenota subito una vacanza nel nostro attrezzatissimo CENTRO MALESSERE!!!

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Un solo weekend con noi e tutta la vostra insopportabile routine di benessere sarà solo un pallido ricordo.

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Dimenticavo. Cura anche l’alzheimer.

Dimenticavo. Cura anche l’alzheimer.

giovedì 21 maggio 2015

Coincidenze


Ma tu guarda un po’ che coincidenza!

Chissà quante volte ognuno di noi avrà pronunciato questa frase. Forse alla maggior parte delle persone sarà capitato, ma ad Ernesto mai.

Lui era uno di quegli uomini precisi, che non lasciano mai niente al caso. Ed era anche un uomo poco fortunato, diciamolo pure: sfigato. E questa sua ultima caratteristica, che aveva scoperto di avere sin da bambino, lo aveva portato a sviluppare quel carattere metodico e puntiglioso in ogni attività cui si dedicava. Era, infatti, intimamente convinto che se mai avesse lasciato fare al destino, quello gli avrebbe sicuramente riservato una brutta sorpresa.

Così aveva scelto un lavoro dipendente, statale, di quelli che non devi stare alla speranza del cliente, della ripresa economica. Ti basta alzarti all’ora esatta e svolgere i tuoi compiti con attenzione e a fine mese la busta paga arriva sempre.

Una donna ancora non l’aveva trovata, e non c’era da sorprendersi, perché cercava una moglie tutta casa e casa (che la chiesa, troppa fede e poco raziocinio, non faceva per lui). Una che si occupasse esclusivamente di lui e dei bambini. Ne avrebbero avuti due, maschio e femmina, concepiti nel giorno esatto calcolando l’ovulazione, nati di parto cesareo programmato, cresciuti alla scuola pubblica, rifuggendo con tigna ogni tentazione di corsi di danza, pianoforte, canto, ovvero di tutte quelle attività buone a mettere in moto la fantasia, ché quella, figurati, appena può ti frega nei modi più artistici.

Solo che, si sa, ci sono cose che tu non puoi gestire, e nel nostro paese più che in ogni altra parte del globo. Come, ad esempio, gli orari dei treni.

Se Ernesto si trovava a dover affrontare un viaggio andava nel panico, perché vai a sapere se proprio quel giorno uno sciopero dei ferrovieri, un suicidio inopportuno, la diarrea di un macchinista, non ti andavano a ritardare la corsa e a sconvolgere l’ordine sacro delle cose.

Quando perciò, raramente, gli accadeva di non poterne fare a meno, aveva preso l’abitudine di prenotare sempre il treno precedente a quello che sarebbe stato normale prendere, anche se, metti caso (il caso!), partiva tre ore prima. In quel modo riteneva di poter assorbire adeguatamente qualsiasi rischio di intoppo e giungere a destinazione comunque in tempo.

Ma quella volta il problema era doppio. Perché il viaggio necessitava di un cambio di treno prima di arrivare a destinazione. E per riuscire a prendere il secondo, doveva approfittare di una coincidenza con una corsa che sarebbe partita appena pochi minuti dopo l’arrivo del primo. Niente di più disturbante, per uno come Ernesto, essere in balìa di una coincidenza! E non poteva fare altrimenti, perché quel treno era proprio l’unico, non ce n’erano altri né prima né dopo. Niente da fare, doveva mettersi in gioco.

Salì sul treno (si badi bene, partito in perfetto orario) con la perturbante sensazione di essere nient’altro che una pallina scagliata con vigore dal croupier in un’enorme roulette.

I passeggeri ciarlanti, stupidamente ignari di essere nelle mani del destino cinico e baro, il panorama segmentato le cui immagini si susseguivano e ricomponevano dai finestrini, le stazioni che come una via crucis scandivano il mistero doloroso di quel viaggio, misero a dura prova il suo sistema nervoso, tanto che in un percorso di neppure due ore probabilmente guardò l’orologio almeno settemiladuecento volte, una per ogni secondo trascorso.

Eppure, a dispetto di ogni sua catastrofica previsione, li treno arrivò in orario.

Per la coincidenza aveva ancora ben sette minuti, di certo più che sufficienti per scendere, cambiare binario e risalire sull’altro treno che l’avrebbe portato a destinazione.

Neanche a dirlo, ben prima di giungere in stazione si era alzato e, valigie alla mano, si era premurato di porsi in pole position davanti alla porta del vagone, tanto che ebbe modo e tempo di imparare a memoria in tutte le lingue che doveva attendere l’arrèt diù trèn prima di premere il pulsante e che non era affatto il caso di penscé ò dehòr, keine gegenstaende ecc.

Così, non appena il treno si fermò e discese il predellino, Ernesto balzò fuori come una molla e, dato un rapido sguardo a destra e a sinistra per capire verso quale direzione il numero dei binari fosse crescente o decrescente, ebbe tutte le coordinate esatte e mise in moto le gambe per trovarsi in tempo per la coincidenza.

Ma vi siete dimenticati che era uno sfigato? Mancavano ben sette minuti e però prima si ruppe la maniglia della valigia, che cadde rovesciando tutto il suo contenuto sul marciapiede ed Ernesto dovette fare violenza a se stesso per non rimetterlo a posto con lo stesso meticoloso ordine con cui era stato riposto. E si persero ben quattro minuti. Meno tre.

Poi dovette scansare un questuante che chiedeva l’elemosina, un tizio che voleva accendere, aggirare con enorme difficoltà una signora paffuta come Giove intorno alla quale ruotavano figli e valigie come satelliti occupando tutto lo spazio a disposizione, tanto che quando giunse in vista del suo binario di minuti n’era rimasto appena uno.

La macchina era già in moto, il capostazione, fischietto in bocca, faceva segno ai passeggeri di affrettarsi, e però il treno era ben lungo ed Ernesto scoprì una falla nel suo piano di viaggio per il resto preciso allo spasimo. Non aveva controllato sul biglietto quale fosse il suo vagone. Direte voi: poco male, bastava salire su quello più vicino a lui e poi una volta a bordo avrebbe verificato e raggiunto il suo posto.

Questa però sarebbe stata la soluzione di un tipo disorganizzato e perciò abituato a trovare le soluzioni all’ultimo momento per rimediare alle proprie frequenti disattenzioni. Ma il cervello di Ernesto non era allenato a questo. Era come un Dodo privo da millenni di predatori trovatosi di colpo a dover combattere con una fauna non autoctona, affamata e maleducata, pronta ad adattarsi ad ogni nuova situazione a spese del più debole.

Pura selezione naturale cui il povero Ernesto non era pronto, e quindi provò a risolvere il problema né più né meno che come fa stolidamente lo struzzo nascondendo la testa sotto la sabbia.  Aprì la valigia per prendere il biglietto e controllare, e nel frattempo il capostazione fischiò, le porte si chiusero, le ruote si misero in moto, e in men che non si dica accanto ad Ernesto rimase soltanto una borsona aperta ed un binario vuoto.

Aveva perso il treno. Signore, lei è davvero un tipo distratto, avrebbe commentato surrealmente un fan di De Andrè parafrasando quel formidabile inciso della canzone Amico Fragile. E non sarebbe andato lontano dalla realtà, perché fragile, spiazzato ed indifeso ed a rischio estinzione era anche il nostro povero Ernesto, trovatosi di colpo privo di un piano B, lui che per giunta era da sempre privo pure di lato B, inteso come fortuna.

Provò a pensare positivo. A volte quando ti si chiude una porta ti si spalanca una finestra. Ma la sua interpretazione di questa frase fatta, specialmente in quel momento, non poteva che essere un invito al suicidio. E magari ci avrebbe pure pensato se non avesse avuto un intimo limite – quasi una legge della robotica – nel dovere di non intralciare gli altri. Il suicidio ferroviario è una delle maggiori fonti di disagio per i passeggeri, oltre che genesi di una serie innumerevole di terribili maledizioni a carico del malcapitato appena trapassato, tanto che se un novello Dante decidesse di farsi una capatina all’inferno sicuramente troverebbe un sottogirone di suicidi in cui stanno a penare coloro che con quel gesto pensavano di passare a miglior vita e invece avevano intralciato quella degli altri che in cambio gli avevano buggerato anche l’ipotesi di sollievo nell’aldilà.

Ma stiamo divagando troppo, mentre la situazione è grave. C’è questo povero Ernesto completamente in mezzo al guado (o, più propriamente, al guano) e deve trovare una soluzione.

Si guardò intorno, più che altro per un riflesso condizionato, come per sciogliere la cervicale, perché idee non gliene veniva una che fosse una. Se avesse avuto un po’ di amore per la letteratura si sarebbe potuto dare animo pensando all’importanza di chiamarsi Ernesto. Che diamine! Sarebbe bastato avvicinarsi a qualche signorina di buona famiglia e sussurrarle il suo nome. Magari non avrebbe avuto successo al primo colpo e neppure al secondo, ma forse al terzo qualcosa sarebbe accaduto, la ruota avrebbe preso a girare in un verso opposto al solito.

Ma come poteva pensarci, lui che leggeva soltanto il giornale della tv per programmare per tempo il videoregistratore e che si chiamava Ernesto non in omaggio al buon Oscar, e neppure all’attore del Cynar, che pure prendeva la vita con ottimismo, ma semplicemente come il nonno. Il caro Nonno Ernesto, morto come una rockstar, se parafrasiamo la fine di Jimi Hendrix soffocato dal suo stesso vomito. In realtà era morto come un fesso, schiacciato dal suo stesso trattore mentre si ostinava a coltivare cetriolini per il caso invero remoto in cui fossero tornate di moda le salamoie.

Per il caso”…. Ma allora, pensò Ernesto junior, il nonno non era come me, lui al caso ci credeva! Vai a sapere come, questa considerazione invece di abbatterlo ancor di più (era pur sempre morto sotto a un trattore, quello sprovveduto, fidando nel destino), lo stimolò a darsi da fare.

Raggiunse l’ufficio informazioni e chiese quando partiva il prossimo treno per la sua destinazione. L’impiegato rispose che fino all’indomani mattina non ce n’erano, purtroppo. Ma questo lui già lo sapeva. E tuttavia insistette.

Ma c’è… PER CASO la possibilità che ne passi comunque un altro prima?

L’uomo lo guardò dubbioso proprio come i primi coloni australiani guardavano i Dodo. Come un qualcosa di già estinto. E fece segno al successivo della fila di avanzare.

Ma non aveva capito che Ernesto, già per aver formulato quella sola domanda, aveva rotto un argine, non solo i coglioni dell’impiegato. Perdere quel treno non era stato vano, perché gli aveva fatto ritrovare la speranza di cambiare il proprio destino.

Speranza destinata ad essere vanificata, lo comprendeva bene anch’egli, eppure quella fiammella, lo sentiva intimamente, sarebbe stata refrattaria ad ogni spegnimento, e lui avrebbe fatto del tutto per proteggerla, da quel momento in poi, avendo cura di tenere sempre la mano a parare il soffio del vento. Tutto per una coincidenza persa.

Che coincidenza, pensò. E rise, come non faceva da tempo. Mentre una signorina con tutta l’aria di essere di buona famiglia, gli si avvicinò, forse per chiedere un’informazione o solo per scambiare due chiacchiere in attesa del prossimo treno. “Ernesto, mi chiamo Ernesto”, le disse, inconsciamente capendone l’importanza.

Lei, che non gli aveva ancora rivolto alcuna domanda, sorrise divertita.

“Ho perso il treno”, gli disse, “quello appena partito”.

Era destino, allora, che ci incontrassimo”, rispose fiero Ernesto.

venerdì 24 aprile 2015

Asocial network

Nella vita reale non esci, non vedi nessuno, il tuo migliore amico fa di cognome Di Vano?
Eppure, trascinato dalla moda imperante, e dopo aver resistito per anni, sei costretto ad iscriverti ad un social network. Perché lo fanno tutti, perché ti sei scocciato di fare lo snob, o di giustificare le ragioni della tua assenza con battute scontate e morettiane del tipo "mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?".
E ora? Dopo aver osservato a lungo prima di agire, come i bambini, per imparare, ti trovi a dover ammettere che non hai capito proprio nulla.
Non hai capito ad esempio perché, se ti ingegni con il sudore della fronte a scrivere una cosa che ti sembra intelligente e ti aspetti chissà quante notifiche, non ti caca nessuno, e poi basta un gattino che precipita da una scala per avere migliaia di condivisioni.
Non hai neppure capito cosa siano i selfie. Ai tempi tuoi si chiamavano autoritratti. O seghe.
Non sai nemmeno cucinare, e quindi non puoi postare la foto della torta. E non vai mai a cena fuori, per effigiare quei gustosi manicaretti che comunque la tua colite nervosa non ti permetterebbe di assaggiare.
Non ti capita mai niente di interessante, o meglio: a te il tale evento sembrava piuttosto curioso e simpatico, e lo hai pure scritto, ma dal (non) riscontro che ne hai ti rendi conto con il massimo stupore che era invece molto più virale un rutto.
E quindi ti trovi a lottare (e spesso a perdere) con la tua autostima, che ormai si misura a colpi di "like".
Ma per te che stai tanto bene a casa tua da solo, col telefono staccato, le pile scariche, un panorama incantevole da guardare rigorosamente da dietro i vetri, non sarebbe molto più appropriato iscriversi ad un asocial network? Pensaci! Un facebook dove invece di avere amici hai "indifferenti" (potresti chiedere e dare l'indifferenza a tantissime persone, molte di più dei quarantadue amici raggiunti a fatica su fb); dove il tuo "stato" è il Tibet; dove sotto ai post non si mette "mi piace" ma "non disturbare"; dove invece di pubblicare foto di deliziosi animaletti si postano cani rognosi; dove i selfie si fanno come un'immagine segnaletica con sopra il fumetto con scritta "che cazzo hai da guardare?".
Forse sarebbe proprio la soluzione ideale, per tipi come te.
Che invece, fra le mille cose che avresti da fare, stai lì a pensare ad una frase divertente, ad una foto che abbia un punto di vista diverso, ad un pensiero ancora non pensato.
E invece di fare qualcosa di utile, anzi di necessario, come andare a pagare le bollette scadute, sei lì in fila per comprare un gattino.

martedì 7 aprile 2015

Il cimitero dimenticato

Diversi anni fa stavo conducendo una ricerca genealogica commissionatami da una famiglia del luogo, quando mi imbattei in un vero e proprio mistero, del quale non avevo finora avuto il coraggio di scrivere.
Dopo aver studiato i registri all’Archivio di Stato ero passato ad analizzare quelli parrocchiali, e fu lì che venne fuori la prima incongruenza, da cui prese le mosse quanto accadde più tardi.
Fino al 1806 gli atti di morte indicavano la tumulazione avvenuta nella chiesa. Nel livello sottostante al sagrato vi erano ampie sale nelle quali da secoli venivano deposte le salme tanto che pur essendo trascorsi più di due secoli, ancora gli anziani chiamano ’o cimmitèrio l’angolo sul lato sud dal quale si accedeva a quei locali, successivamente interrati.
A partire da quell’anno l’editto napoleonico di Saint-Cloud, per ragioni di igiene, aveva disposto che le sepolture avvenissero in aree appositamente individuate all’esterno del centro abitato, ad almeno un miglio. Da allora, infatti, i registri non riportavano più la tumulazione in chiesa ma in un “camposanto”.
Sulle prime la cosa non mi colpì affatto, sapevo benissimo dove si trova il cimitero, nei pressi della Cappella della Madonna del Carmine che è, appunto, ad un chilometro esatto dalla piazza del paese, e non avevo motivo di dubitare che il riferimento al “camposanto” fosse proprio a quel terreno.
Però a partire dalla fine del 1817 veniva indicata di nuovo la tumulazione dei cadaveri in chiesa, e solo dal 1840 si parlava di nuovo di sepoltura nel camposanto.
Cos’era successo? Per quale ragione il cimitero non era stato più utilizzato per oltre vent’anni? La cosa mi incuriosì, tanto che provai a trovare una spiegazione su alcuni testi e in primis su una dettagliata Storia del nostro paese pubblicata proprio in quel periodo. Lì vi era soltanto qualche riferimento alla questione e piuttosto che chiarire i miei dubbi ne apriva altri. Vi si leggeva che l’amministrazione comunale nel 1817 aveva deliberato all’unanimità la realizzazione di un nuovo cimitero, ma per le resistenze della popolazione che preferiva che i propri cari fossero sepolti in chiesa i lavori erano proseguiti a rilento per essere terminati soltanto nel 1840. Si parlava espressamente di quello che esiste tuttora, adiacente alla Cappella, anch’essa riedificata proprio in quegli anni sulle fondamenta di un piccolo edificio sacro precedente, da tempo diruto. La vulgata popolare riferiva di una visione della Vergine apparsa ad una “pia donna del luogo” per sollecitare la ricostruzione della chiesa e del cimitero proprio in quel punto esatto.
Cosa non tornava, allora? Il vuoto di un decennio, fra il 1806 e il 1817, in cui le sepolture non avvenivano più in chiesa ma in un “camposanto” che però non poteva essere quello attuale, finito nel 1840.
C’era stato per un breve periodo un altro cimitero? E dove? I libri non mi fornivano altre informazioni e interrogati alcuni anziani alla mia richiesta sembravano cadere dalle nuvole, era come se fossi stato il primo dopo due secoli ad accorgermene.
Per un poco non ci pensai più, e tornai al lavoro sui registri. Ero arrivato appunto a quel fatidico 1817. Fino ad allora le ricerche genealogiche erano state agevoli, perché ogni anno non morivano che una ventina di persona al massimo, per cui si trattava di sfogliare appena qualche pagina per individuare il nominativo che mi interessava. Rimasi alquanto sorpreso nel notare che, invece, in quell’anno i morti erano stati oltre centocinquanta. In un paese che all’epoca contava appena 800 anime stava a significare che quasi un quinto della popolazione aveva perso la vita. La ragione? Anche quella storicamente nota e documentata, come potetti approfondire più tardi. Un’epidemia definita di tifo petecchiale che proprio nel 1817 raggiunse la sua massima diffusione in tutta Italia, e anche nel nostro territorio, complici le pessime condizioni igieniche, falcidiò una fetta consistente della popolazione.
Si era trattato di una vera e propria pestilenza dalla quale era stato improbo provare a salvarsi, la triste riprova era proprio la morte del parroco, annotata nei registri. Quello stesso che aveva diligentemente preso nota del continuo trapasso dei suoi concittadini ed aveva prestato loro indefessamente i conforti religiosi in articulo mortis, evidentemente era stato contagiato. La pagina successiva infatti, era compilata con grafia differente da quella di tutti gli altri certificati; era quella di un altro sacerdote, e riportava infatti proprio la morte del povero prete.
Avevo letto i resoconti delle varie epidemie di peste del seicento, dalla Morte Nera veneziana alle pagine immortali del Manzoni sul contagio a Milano, e conoscevo bene come all’addensarsi delle nubi della diffusione del morbo corrispondesse l’immane sconforto delle popolazioni, del tutto ignare delle cause (attribuite ad una punizione divina) e ancor di più sulle condotte di prevenzione, anche le più elementari.
Immaginavo che, pur non trattandosi propriamente del morbo della peste, un’analoga atmosfera da girone dantesco fosse calata anche sul nostro piccolo centro in quel famigerato 1817, in cui ogni famiglia ebbe uno o più lutti e tutte furono preda del contagio e della disperazione più profonda.
Da un saggio del dott. G. Palloni, “Commentario sul morbo petecchiale”, pubblicato nel 1819, ero venuto a conoscenza di alcuni dettagli che avevano acuito la mia impressione di un evento vissuto come una vera e propria calamità naturale dalla popolazione, del tutto impotente di fronte ad un morbo dalla diffusione così virulenta e che si presentava in maniera così orrenda e dagli esiti quasi sempre mortali.
Si trattava di una serie di “sconcerti del sistema gastrico e nervoso” (così li definiva l’autore) accompagnati ben presto da una febbre maligna e violentissima in uno alla quale apparivano sul corpo degli esantemi (le “petecchie”) che portavano nel giro di due-tre giorni ad una diffusa e profonda desquamazione per cui il malato, nella fase terminale, appariva come se migliaia di uncini gli avessero lacerato le carni e fosse stato poi lasciato essiccare al sole. Anche le interiora, visionate in sede autoptica, presentavano un elevatissimo grado di putrescenza tanto che appariva quasi impossibile distinguere i singoli organi in quella “poltiglia putrida”. La percentuale di mortalità era vicina al settanta per cento.
L’autore poi si diffondeva nel descrivere con dovizia di particolari macabri i vari casi, e io – forse per quella ricerca genealogica che mi aveva fatto sentire “vicino”, quasi conoscente di quei miei antichi compaesani – non ebbi la forza di continuare nella lettura di quelle tristi pagine. Tornai alla mia ricerca fatta di soli nomi e date e per un poco me ne dimenticai. Fu invece un altro strano episodio che mi fece poi tornare in mente la storia della malattia e di quel cimitero “dimenticato”.
Ero stato avvicinato, in quelle settimane, da un anziano studioso di storia locale, il quale coglieva spesso l’occasione per narrarmi una serie di aneddoti sulle vicende passate, delle quali era appassionato. Per lo più storie minuscole di uomini delle cui gesta non esistevano carte scritte ma soltanto una fervida tradizione orale che, nel continuo tramandare di bocca in bocca aveva probabilmente lasciato quel poco di verità che restava fra le maglie del ricordo per restituire soltanto racconti di pura fantasia. E però amavo ascoltarle, quelle storie, come quel giorno davanti ad un gelato, al tavolino di un bar della piazza posto strategicamente all’incrocio delle correnti per trovare un po’ di refrigerio dalla calura di quell’estate.
Vi dico subito che anche a lui avevo chiesto notizie del cimitero scomparso e non avevo avuto risposte soddisfacenti. Così mi sorprese molto ascoltare il racconto degli straordinari poteri di Teresa Gatto, “Trèsa ‘a hatta”, come veniva chiamata in dialetto. Non di rado i suoi “cunti” presentavano elementi soprannaturali, circostanza così comune nelle narrazioni popolari che piuttosto che inquietarmi aveva sempre l’effetto di divertirmi, rimandandomi a quelle storielle attorno al fuoco di quando eravamo piccoli, con le quali i nonni ci regalavano un piccolo brivido come ricompensa per avere”fatto i bravi”, o aver aiutato i genitori o finito tutta la carne. Ma ascoltare la storia della “Gatta” fu ben diverso, come sentirete.
Teresa parlava con i morti. E sfruttava questa sua capacità, lei che era sola e nullatenente, per chiedere ed ottenere cospicue elemosine in cambio di un messaggio dall’aldilà. Fosse capacità di immedesimazione psicologica o vero e proprio potere, fatto sta che le parole che lei riferiva esserle state dette dai defunti erano sempre così apprezzate dai suoi compaesani che, vuoi per convinzione, per scaramanzia (non si sa mai!) o per pura benevolenza, non le facevano mai mancare la carità.
Il fatto che mi narrò il Professore (così lo chiamavano tutti) doveva essere accaduto nella seconda metà dell’ottocento. Mi raccontò che Teresa, nel suo consueto giro per le case, s’imbatté in una vedova che invece l’accusò di approfittare delle disgrazie altrui. Per convincerla, Teresa provò a farle il nome del marito, dicendole che si era lamentato dall’oltretomba di non avere avuto mai in tanti anni una messa in suffragio, e la donna allora – forse punta sul vivo? - la cacciò via in malo modo, facendola finire con una spinta violenta lunga e distesa sul selciato. Teresa, che pure aveva già una certa età ed era esile esile, ma agile proprio come una Gatta, si rialzò rapidamente come se non fosse successo niente, e mentre si ripuliva il grembiule dalla polvere guardò intensamente la donna – che nel frattempo era rimasta in piedi sulla soglia, a busto eretto e con le mani sui fianchi, soddisfatta del suo gesto – con un sorriso beffardo. Quindi le disse lentamente, quasi sussurrando: “verrà un giorno in cui mi pregherai di accettare la tua elemosina”.
Passò qualche tempo e una notte la donna, che si chiamava Carmela e viveva in una zona appena fuori paese, chiamata le Logge, fu svegliata da strani rumori, un misto di voci sussurrate e passi pesanti. Pensò subito ai briganti, che a quel tempo infestavano le campagne e non di rado si spingevano a razziare anche i paesi. Lei era una donna sola, e aveva una dispensa ben fornita, un ottimo obiettivo. Subito balzò dal letto, scese le scale e si rifugiò in cantina, si accosciò fra i sacchi pieni di ogni ben di dio, tutti cifrati con le proprie iniziali, e si mise a spiare fra le assi dello steccato. Quel che vide non furono i briganti ma qualcosa che la lasciò ancora più stupita. Lungo la via di campagna che costeggiava la casa e proseguiva verso il fiume stava passando una processione, sentiva le preghiere mormorate e vedeva una folla piuttosto numerosa percorrere il sentiero. L’abitazione era posta a un livello più basso rispetto alla strada, di modo che lei, da dove si trovava, non riusciva a vedere le facce, ma notò che tutti i fedeli avevano qualcosa di lucente, una candela, forse, o una piccola fiaccola, proprio come nella via crucis del venerdì santo. Solo che era l’inizio di novembre, la pasqua era lontana. Non riusciva a raccapezzarsi, le processioni non passavano mai per le Logge. La zona dove lei abitava era del tutto estranea al tragitto consueto che partiva dalla chiesa e solcava il centro abitato. La via che passava da casa sua partiva, sì, dalla Chiesa, ma conduceva soltanto al fiume. E… al cimitero!
Carmela rabbrividì per un attimo, capace che si trattasse di un funerale? Ma un corteo funebre di notte non si era mai visto, il defunto veniva vegliato fino all’alba e solo con la luce del sole accompagnato all’estrema dimora. Era una donna coraggiosa, e ancor di più curiosa, non resistette al dubbio e uscì fuori, fino al vialetto. Effettivamente si trattava proprio di un accompagnamento, davanti al popolo procedeva il catafalco su ruote, trainato da due cavalli neri. Ma chi era morto? Non aveva sentito suonare le campane…
Superò la fila che procedeva lentamente e dopo una curva incrociò frontalmente il corteo. Le prime persone erano di solito i familiari del defunto, avrebbe così compreso di chi si trattava. Le osservò con attenzione, ma non le riconobbe. Eppure nel paese conosceva tutti. Volse lo sguardo verso le file più dietro, e neppure lì conosceva nessuno, o meglio, alcuni a prima vista sembravano dei paesani ma poi, guardando meglio, erano solo delle somiglianze. Strano. Possibile che fossero venuti da un altro paese vicino a fare un funerale lì? E di notte, poi? Mah. Forse avevano altre usanze.
Mentre il catafalco era giunto a pochi metri da lei, si era quasi tranquillizzata e se ne stava tornando a letto, allorché notò che le luci che quelle persone portavano con sé non erano candele o lumini, anzi sembrava quasi che la fiamma sgorgasse direttamente dalle loro mani, dal pollice teso. E i loro sguardi… non c’era tristezza o pena, erano occhi vacui, spenti. Ebbe allora un attimo di smarrimento, ma non riuscì neppure a ragionare sull’assurdità di quanto aveva visto che la bara giunse accanto a lei e, contrariamente ad ogni consuetudine o logica, era aperta.
Invece di correre via, come forse a quel punto sarebbe stato sensato, se ne sentì irresistibilmente attratta, non resistette alla stolida curiosità di guardare il cadavere. E allora accadde che fra le cento e più di facce apparentemente sconosciuti osservate sino ad allora, apparve ai suoi occhi un volto ben noto. Il morto nella bara era suo marito. Non c’era dubbio. Lo ricordava bene. Sembrava fosse stato appena composto, e che non fossero passati più di trent’anni.
Fu colta dal panico. Era morto nell’epidemia di tifo petecchiale che aveva decimato il paese, eppure ora era lì, ancora integro sebbene provato dalla malattia, sembrava quasi che dormisse, sembrava che potesse da un istante all’altro aprire gli occhi e parlarle. E infatti fu così. Mentre lei era ancora lì stupefatta a guardarlo, sbarrò di colpo le pupille e si levò a sedere. Il corteo, come ad un comando inconscio, si fermò, smisero persino di biascicare preghiere. I cavalli si arrestarono anch’essi, emettendo fumo bianco dalle froge. Carmela era paralizzata dal terrore. Il marito aprì la bocca per parlare ma invece di emettere dei suoni articolati produsse un lamento intenso e straziante che partì da una nota bassa per arrivare rapidamente ad una tonalità così alta e stridente che la costrinse a tapparsi le orecchie. Tutti i presenti invece rimasero all’inizio impassibili, come se tutto ciò fosse perfettamente normale, poi pian piano iniziarono anche loro ad emettere un lamento, dapprima tenue e poi sempre più forte fino ad essere all’unisono con quello del marito.
Le gambe le cedettero, e si accasciò sulle ginocchia. Il marito dall’interno della bara tese le braccia verso di lei, con le mani come artigli pronti a ghermirla in un abbraccio mortale, continuando a soffiare quel macabro suono. A Carmela quel rantolo non era sconosciuto, era quello terribile che lo sventurato emetteva negli attimi terminali di quell’infernale contagio che l’aveva condotto a morte. E ora come allora lei non poteva fare altro che attendere che finisse.
Per la verità, tanti anni prima lei non si era limitata ad attendere ma alla fine non ne aveva potuto più e quando sembrava fosse ormai prossimo a spirare l’aveva aiutato soffocandolo con un cuscino. E non era stato facile come poteva sembrare, perché sebbene la malattia nel giro di pochi giorni l’avesse completamente consumato, aveva mostrato in quell’occasione una inattesa vitalità. Sembrava morto, se non fosse stato per quel lamento infinito, eppure quando gli aveva calcato sulla faccia il cuscino aveva iniziato a dibattersi, a scalciare, e lei che non era pronta a quella reazione non aveva avuto lucidità di prendere la decisione più semplice, cioè farlo respirare e attendere che la natura facesse il suo corso ma aveva insistito, con tutta la sua forza, calandoglisi addirittura addosso con tutto il suo peso, fino a quando, dopo una strenua lotta, era infine spirato. Lei poi era fuggita via, aveva chiamato altri parenti che, senza sospettare nulla avevano provveduto a comporre la salma, mentre Carmela non aveva neppure partecipato al funerale né aveva voluto più ricordare quel momento, rifiutandosi pure di far dire delle messe in suffragio, che le sembravano una blasfemia, dovendo venire da lei che era stata la sua assassina.
Nel ripercorrere quegli istanti le sovvenne quanto le aveva detto quel giorno la Gatta. E come per magia, alzò gli occhi e a capo di quel corteo di facce - che prima sembravano ignote ma che ora a guardarle meglio… le ricordavano suoi compaesani morti da tanti e tanti anni, sebbene più magri, sofferenti, quasi consunti e iniziavano a dirigersi verso di lei con fare quasi minaccioso - c’era proprio quella di Teresa, che sogghignava e annuiva con forza.
“Aiutami!!”, la implorò Carmela. Ma quella non se ne diede per inteso e continuò a procedere verso di lei insieme a quell’orda di… come definirli? Morti viventi, diremmo ora, zombie? Fatto sta che di certo non avevano più molto di umano. Carmela corse verso casa, entrò in cantina ed afferrò un sacco pieno di farina, quindi uscì di nuovo e lo protese verso Teresa. “Accetta la mia elemosina, te ne prego, e manda via questi… questa gente!”. Mentre pronunciava queste parole, si girò vero il catafalco. Il busto del marito, seduto, emergeva ancora dalla bara e si dimenava goffamente a braccia tese e con la testa penzoloni.
Teresa allora fece un cenno e il gruppo si fermò. Si avvicinò lei sola a Carmela, prese il sacco, la ringraziò e si riunì alla processione che come se nulla fosse stato riprese rapidamente il proprio cammino sparendo dietro alla curva. Dopo qualche secondo non si sentì più niente, né passi, né preghiere e tantomeno lamenti, tanto che si ritrovò a pensare fosse stato solo un incubo.
Ma qualche giorno più tardi ricevette una nuova visita della Gatta, e questa volta non l’accolse con disprezzo ma con rispetto. Le offrì subito l’elemosina, ma quella rispose che era lei a doverle qualcosa. Estrasse dalla tasca del grembiule un telo arrotolato, glielo porse. Era il sacco in cui era contenuta la farina che le aveva donato, riconobbe subito le iniziali ricamate. Non era stato un sogno, non c’erano più dubbi. E quando Teresa disse quel che seguì, ogni titubanza sparì del tutto.
“L’elemosina che chiedo, è vero, serve a me per vivere. Ma loro vogliono che io viva per poter raccontare ai loro cari come stanno, di cosa hanno bisogno. E quando io ho queste esperienze sono così stancanti che per giorni sono distrutta e non posso lavorare e guadagnarmi da vivere diversamente. Io servo a loro e loro servono a me. Tuo marito…” Carmela ebbe un sussulto. “Tuo marito comprese quel che gli facesti, capì la ragione, non volevi commettere un omicidio, fu solo pietà. Non sentirti in colpa, fai pace con te stessa e con la sua memoria. E fagli dire una messa ogni tanto, servono a farli sentire meno soli, dove si trovano”.
“Ma perché volevano aggredirmi?”, chiese Carmela.
“Non volevano aggredirti, volevano semplicemente… toccarti. Hanno una forte nostalgia delle persone, della vita, appena vedono un uomo, una donna, vogliono avvicinarsi, bramano ancora un alito di vitalità. Solo che non riescono più a parlare, li capisco soltanto io e pochi altri come me…”.
“Ma possono vederli tutti?”, la incalzò.
“Non tutti, anzi sono rari quelli che ci riescono. A te non capiterà più, a meno che ci sia una ragione davvero importante. In questo caso c’era, te l’ho spiegato. Erano tutti morti di tifo nelle condizioni di tuo marito, vagano nella notte accompagnandosi a vicenda ma è come se avessero perso la strada, cercano la pace eterna ma ancora non la trovano. Per il fatto che sai, che sappiamo tutti noi del paese, anche se fingiamo di avere dimenticato. Ma i morti lo sanno meglio di noi che il sale sulle ferite non le guarisce, anzi le infiamma ancora di più… E non c’è acqua bastevole a spegnere quel fuoco che brucia da trent’anni”.
Il professore s’interruppe. Disse che l’anziano che gli aveva riportato il racconto tanti anni prima si era fermato a quel punto, come se non avesse avuto il coraggio di continuare, come se si fosse trattato di qualcosa troppo difficile da narrare sebbene a distanza di oltre un secolo. Forse, aveva sospettato, perché anch’essi erano stati aiutati a morire da qualche parente, e il vecchietto non aveva voluto raccontargli tutto perché magari i familiari erano ancora in vita e sembrava come fare la spia o un oltraggio alla memoria.
Mi disse anche un’altra cosa. Che la storia di Teresa e Carmela non era l’unica del genere che si raccontava in paese. Ce n’erano molte altre che avevano ad oggetto messe e processioni di defunti, non così dettagliate come queste, ma che avevano in comune la faticosa ricerca di pace da parte dei morti, inquietante anche il racconto della donna sepolta viva in chiesa, trovata dopo tempo alzata dalla bara, con il lenzuolo arrotolato in testa, far leva col cranio sulla botola che chiudeva la tomba, senza riuscire però ad aprirla. Si trattava, lo so bene, della classica trama delle storie dei fantasmi, ma aggiunse un particolare: erano state frequenti fino all’inizio degli anni ’70 del ‘900, alcuni ancora in vita giuravano di esserne stati testimoni oculari, e poi di colpo erano finite. Si erano come “spente”. Fu questa la parola che usò.
La sera ripensai a quel racconto, e qualcosa non mi tornava. Mi sembrava che mi fosse sfuggito un particolare importante, che non avevo messo bene a fuoco. Mi rituffai nelle mie carte, l’albero genealogico dei miei clienti era ormai pressoché completo. A margine ancora era rimasto un asterisco a ricordami la questione del cimitero “scomparso” nel 1817. Un anno fatale, per la comunità, dal quale erano scaturite conseguenze che avevano permeato addirittura i racconti di fantasia, come quello di Teresa Gatto.
Ma era stata davvero una fantasia? E se era così, non c’era un fondo di verità, come in tutte le storie? Cosa avevano omesso di raccontare al Professore? Perché le anime dei morti di tifo non trovavano pace, secondo il racconto? Era inverosimile che fossero tutti stati oggetto, come diremmo ora, di “eutanasia”, la ragione doveva di sicuro essere un’altra. Ma quale? Poi fra le mille domande che affollavano la mia mente se ne affacciò repentina un’altra, la più inquietante. Dov’erano stati sepolti tutti i morti dell’epidemia se solo alla fine del 1817 il Comune avviò le pratiche del nuovo cimitero e si riprese a seppellire in chiesa? Evidentemente proprio nel “camposanto” di cui non c’era più memoria! Forse iniziavo a capire… Mi immersi di nuovo nella lettura del commentario del 1819, al capitolo in cui si descrivevano particolari caratteristiche del decorso della malattia in alcuni casi…
Poi ripresi il libro con la storia del paese, il nostro terreno ricco di acqua e solcato da diversi fiumi era stato sin dall’epoca preistorica teatro di numerosi insediamenti umani, ve n’erano notevoli testimonianze proprio nella zona del fiume.
Ormai si era fatta notte. Ma non era tempo di dormire, era il momento di capire, altrimenti neppure io avrei mai trovato pace. Andai a casa del Professore, lo trovai a letto ma lo convinsi ad alzarsi. Gli raccontai quanto avevo scoperto, gli prospettai una mia intuizione e lui, stupito, la confermò.
Insieme ci avviammo a piedi per la via delle Logge, ancora la stessa di allora, sebbene asfaltata e costeggiata di numerose abitazioni, io stesso ne possiedo una. Dopo circa un chilometro giungemmo fino alla Cappella ed al nuovo cimitero, ma invece di salire il viottolo che porta all’ingresso, proseguimmo verso sinistra, lungo un sentiero laterale, fino a quando, bianca ed enorme come la chiglia di un transatlantico o la pancia di una balena, si erse di fronte a noi la muraglia enorme della Diga, che sorregge le tonnellate di acqua frutto dell’invaso sul fiume costruito negli anni ’70. Gli scavi per la sua realizzazione erano stati imponenti, e nel corso degli stessi erano stati rinvenuti numerosi reperti dell’epoca neolitica, utensili, armi, selci lavorate, gioielli rudimentali e… ossa, tombe antiche.
Era lì sotto? Mi chiese il professore. Risposi di sì, ne ero convinto. Il primo camposanto era stato creato nel 1806 in quello spiazzo pianeggiante ora coperto di acqua. In quell’area dove nel corso dei millenni l’uomo si era spesso insediato, e dove aveva seppellito i propri defunti. Che fosse stata memoria storica oppure un ancestrale richiamo, quando era stato necessario spostare il cimitero dalla chiesa ad un terreno esterno al paese, si era scelto quel posto. E per i primi anni tutto era andato bene. Fino a quel maledetto 1817. Quando le morti si susseguivano senza sosta e per stanchezza, terrore e paura del contagio non c’era neppure tempo di aspettare le ventiquattr’ore canoniche prima della sepoltura. E allora era capitato che, complici le particolari conseguenze del morbo, che provocava una sorta di morte apparente nel malato che invece conservava ancora un residuo di forza, molti di coloro che erano stati seppelliti alla bell’e meglio sotto pochi centimetri di terra e avvolti nei soli sudari, si erano alzati dalle fosse ed erano stati ritrovati anche ad una certa distanza. Magari addirittura qualche “risveglio” era avvenuto in presenza di qualcuno e allora…
Allora – continuò il professore – la popolazione già provata dagli eventi aveva ritenuto, in preda alla suggestione, che quel campo fosse maledetto, ed aveva ripreso a portare i morti in chiesa. Dove magari si erano comunque risvegliati – vedi la storia della donna – ma ormai l’epidemia era in netto calo alla fine del 1817, e non era più accaduto con quella frequenza terrorizzante. Così il Comune aveva deliberato di costruire il nuovo cimitero in altro posto, e il provvidenziale sogno di una “pia donna” aveva suggerito l’area accanto ai ruderi della vecchia Cappella, all’ombra della protezione benevola della Madonna. Dove, difatti, non era mai più successo niente del genere! Logico, visto che non c’era più il tifo, ma significativo per l’indole superstiziosa dell’epoca.
Del vecchio camposanto nessuno aveva voluto più sapere nulla, capace che vi fosse stato sparso anche del sale, come una damnatio memoriae di epoca romana, e fosse stato vietato addirittura parlarne. Ma nell’inconscio di molti era rimasto il dramma dei propri familiari rimasti sepolti lì, che veniva vissuto come un oltraggio alla loro memoria di anime senza pace. Pensiero auto colpevolizzante che aveva sicuramente fatto scaturire i racconti e le leggende, come quella di Teresa la Gatta.
Poi era stata costruita la Diga, e ormai tutto era al sicuro sotto un mare d’acqua dolce.

Che aveva finalmente spento quella ferita, lavato via il sale. Non se ne sarebbe parlato più. Solo noi sciocchi appassionati di storia e misteri avevamo voluto ripercorrere quell’antica storia. Giurammo di tenerla per noi, e così è stato per tutti questi anni, il professore purtroppo non c’è più e neppure io avevo avuto occasione di ripensarci. Fino a quando, in questa notte inquieta di primo autunno, mentre non riuscivo a prendere sonno per il caldo e la siccità che dura da mesi, che sono esaurite perfino le riserve idriche della Diga, ho sentito dei passi pesanti e dei sussurri lamentosi e strazianti per la via che costeggia la mia abitazione, qui alle Logge... 

venerdì 20 marzo 2015

Di primavere, odissee ed eclissi

E così è di nuovo primavera.
Che stai lì ad attendere per mesi che l'inverno finisca e poi una mattina non te ne sei accorto e già sono spuntati i primi timidi fiori e le ragazze, ad un flebile raggio di sole, ti rapiscono di nuovo con la pelle non ancora abbronzata... "Nausicaa dalle bianche braccia" ricordi le traduzioni dal greco dell'Odissea?
Che è la prima volta senza Pino, che condivideva con me l'ansia mista a sgomento di fronte ai cambiamenti inevitabili e pure così densi di aspettative da non dover essere per forza frustrate.
"Che paura 'a primmavera, nun sai cchiù che t'aspettà e che succere", questa frase tratta da Bella 'mbriana ha campeggiato per anni sulla parete della mia casa di studente a Lancusi, scritta sulla gamba di un jeans della mia ragazza di allora appeso al muro come un'opera postmoderna, l'epigrafe dell'incolmabile iato fra quel che dev'essere e quel che sarà realmente.
 Quando le montagne che vedo da qui ancora spoglie e brulle si copriranno di verde compatto come muschio su una pietra di fiume, e il mio cuore ancora una volta avrà capito che ci sono già dentro e tocca aspettare la prossima, allora mi volterò indietro a chiedermi se questo timido sole che oggi ha pensato di eclissarsi per un po' non stesse semplicemente concedendo una nuova occasione a chi come me è sempre in ritardo e si accorge della primavera quando ormai è estate, si è già suonato, nuotato, sudato e settembre dietro l'angolo non sembra una sfida bensì un rifugio sicuro...
Invece ora che primavera è nell'aria, come cantava quel poeta, ogni profumo, respiro, anelito di vita che rinasce è un'occasione da mancare rigorosamente, un bicchiere mezzo rotto, una mano scivolosa che prova ad afferrarti, una bellezza così intensa e struggente che è opportunità ma pure prigione.
Benvenuta, primavera, amata stagione.

sabato 14 marzo 2015

Schubert e l'espiazione

Sto cavalcando un focoso destriero lungo i viali alberati della mia tenuta di campagna quando un trillo mi strappa ai confortevoli meandri del sonno.
Riconosco la melodia, è una sonatina di Schubert. Probabilmente l’opera 137 n. 2, anche se l’esecuzione, molto meccanica, lascia a desiderare.
Non capisco subito da dove provenga, del resto nel castello a quest’ora del mattino c’è sempre una notevole animazione, l’attività quotidiana riprende ed ognuno è intento alle proprie occupazioni, i suoni si rincorrono. Non fosse stato per la sequenza inconfondibile di note avrei potuto pensare al maggiordomo che aveva pestato la coda di un gatto in cucina. Più probabilmente è mia figlia che sta esercitandosi col violino ed ha preso una stecca.
Sono indeciso se alzarmi oppure girarmi dall’altro lato e continuare il sogno interrotto – il cavallo sta sicuramente scalpitando per riprendere il galoppo! – quando si apre la porta della mia camera da letto.
“Chi è che si permette di entrare senza prima annunciarsi?”
Nessuna risposta. Ma sento dei passi. Qualcuno ha fatto ingresso e si avvicina al mio talamo. Le imposte sono ancora socchiuse, il sole che pure sarà già abbastanza alto si è fatto strada a malapena attraverso le fessure per cui la stanza giace in quella che fino a un momento fa era una piacevole penombra e ora è diventata invece nascondiglio ideale per un’insidia.
Sono già scampato in vita mia a più di un attentato. Non è per niente facile essere il signore di un feudo così esteso. Occorre usare il pugno di ferro con i sudditi, e io l’ho fatto. E perciò sono molti quelli che mi odiano e alcuni di loro hanno provato anche ad uccidermi, quando se n’è data loro l’occasione. Non è molto tempo che un villano eludendo le guardie si introdusse nel mio appartamento brandendo un coltellaccio e si avventò contro di me. Ma era privo di quell’esperienza di combattimento datami dai lunghi anni di accademia, così che non mi fu difficile scrollarmelo di dosso e con un gesto elegante trafiggerlo con la mia daga.
Da allora nessuno più aveva più osato.
Eppure adesso c’è quest’ombra inquietante.
Calcolo la distanza fra il letto e la porta. Troppa, per essere certo di poter fuggire incolume. E poi scappare non è nel mio carattere. Come un capitano non abbandona la propria nave, neppure io abbandonerò mai il mio castello.
Ma la porta si apre di nuovo, altre piccole ombre fanno ingresso nel mio sancta sanctorum.
Gli occhi si stanno abituando all’oscurità e mi accorgo con sollievo che riesco ora ad individuare quelle figure, a scorgerne i contorni, a capire la loro posizione e dunque a potermi difendere.
Non sono invece sicuro che loro mi stiano vedendo. Sebbene di certo armati di cattive intenzioni nei miei confronti, piuttosto che dirigersi alla mia volta percorrono la stanza lungo il tappeto che si srotola da una porta all’altra. Sembrano disorientati quasi come me, si guardano intorno, osservano gli arredi e i quadri alle pareti.
Scivolo silenziosamente al lato del letto, provo a nascondermi, ma continuo a osservare da oltre il bordo del materasso. Non l’avessi mai fatto! Le mie pupille dilatate rimandano un’immagine a dir poco soprannaturale che mi fa contorcere dallo spavento. A me, che pure ho affrontato nemici terribili.
Perché non si tratta di uno sporco villico armato, di quelli che solitamente vogliono la mia vita e che ho fatto giustiziare a grappoli.
Nel buio vedo brillare due occhi di bambino.
Il corpo è diafano, emana una luce fredda. Ne distinguo il contorno, esaltato da una minuscola fiaccola – almeno così mi sembra – che la piccola anima reca con sé, ma che contrariamente ad ogni legge fisica invece di illuminare lo spazio circostante illumina soltanto il suo esile corpicino. Un fuoco fatuo. Uno spettro, certamente.
Nella mia esistenza ho affrontato vittoriosamente ogni genere di insidie, ma sono stato sempre un seguace del positivismo, non ho mai creduto ai fantasmi. Solo che, a differenza di molti, questo mio scetticismo non mi ha generato disincanto rispetto a fenomeni apparentemente senza spiegazione, tutt’altro, ne sono stato sempre sanamente terrorizzato.
Così, invece di reagire come avrei fatto in altre occasioni, mi rannicchio ancora di più accanto al letto. Dev’essere l’anima di un fanciullo. Forse il figlio di uno di coloro che ho mandato a morte. Torna a vendicarsi. E i fantasmi non puoi trafiggerli con la spada. Provo anche a brandirla, è ancora accanto al baldacchino, ma non ci riesco, sembra sfuggirmi, un miraggio anch’essa?
Sconvolto, sono preso da un mancamento, perdo per un attimo conoscenza.
Non sono più a cavallo del mio destriero. Ora sono il mio falco, al quale il falconiere ha tolto il cappuccio per lanciarlo verso la luce. Le mie braccia sono ali, penne la mia armatura, le mie mani artigli pronti a ghermire la preda.
Sorvolo il castello, ne apprezzo le forme regolari, geometriche, le mura possenti dalle quali ho fatto scagliare frecce micidiali, le torri merlate donde le mie guardie osservano i movimenti nelle valli circostanti e prevengono ogni pericolo.
Sono un falco, volo più in alto di tutti gli altri uccelli. Disegno ampie volute nel cielo, ora sono sulla torre dell’orologio, gli altri volatili fuggono atterriti, come hanno sempre fatto tutti i poveracci al mio passaggio pensando che la morte avesse scelto il loro turno.
Con la mia vista fenomenale scorgo un movimento molti metri più in basso, nel cortile, nei pressi della splendida fontana monumentale. Un pettirosso che sta chinando il collo per abbeverarsi. Sarà quella la mia preda di oggi.
Sono un falco, reclino le ali in modo da fendere l’aria e scendo in picchiata.
Non vedo più le nuvole, le torri, le mura, i merli, le campagne, nei miei occhi soltanto la preda, un filo invisibile ci unisce da quando l’ho eletta a mio obiettivo e quel filo sto percorrendo alla velocità del suono, gli artigli già in posizione per afferrarla, quando il pettirosso si volta verso di me e i suoi occhi…
… i suoi occhi sono gli stessi del bambino!

Mi risveglio affannato, il cuore sembra esplodermi nel petto.
Sono rotolato sotto all’alcova, e da lì mi vedo circondato da tanti piedini.
Le piccole anime mi hanno finalmente individuato.
Ora il pettirosso sono io e loro i falchi.
Portatemi con voi, anime del purgatorio! Fatemi scontare una volta per tutte le mie malefatte! Siete i figli morti di fame perché diventati orfani. Siete i rami potati quando l’albero è stato stroncato. Siete i fiori mai sbocciati, i frutti deturpati dalla siccità e dal terribile uragano. Leggetemi la sentenza, condannatemi ad espiare la morte prematura e violenta dei vostri genitori per mano mia!
Sono qui. Come il capitano non abbandona la nave, io non abbandonerò mai il castello, perché qui devo pagare per le mie colpe. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
Poi di nuovo un trillo, questa volta non è Schubert ma un motivo che non conosco. Forse la musica dell’inferno, il sabba che mi stanno preparando. Un ritmo tribale, straniante, che sale, cresce sempre più forte. E io, sconvolto, perdo di nuovo coscienza. Questa volta sono un serpente, scivolo via in una fenditura fra le rocce.
Ma tornerò, non lascerò mai il mio castello.

“Massimo, per piacere, rispondi a quel dannato telefono! Hai scelto una suoneria davvero orribile!”
“Mi scusi signora maestra, è il telefono di mio fratello grande, forse è una canzone di Marilyn Manson… Lo sa che quello è fissato con il death metal!”
“Che tempi! Capisco che ormai ‘sti cellulari ve li portate dovunque, pure qui in gita al museo del castello dove invece dovreste solo imparare, ma almeno fate come Sabrina, che si è messa la suoneria di musica classica. Che era, Schubert?”
“Ah, non lo so mica, forse era Lupèn, Sciopèn, come si chiama lui, è una cosa che l’ha messa papà, duepalle, appena posso la cambio. E poi questa stanza è in penombra, dobbiamo tenere accesi i telefonini per farci luce.”
“E’ per creare atmosfera, questa era la camera da letto del feudatario. Si narra fosse una persona assai sanguinaria con i propri sudditi, ma si trattava bene, guardate che stanza elegante, osservate, avvicinatevi al letto, così, tutt’intorno, che arazzi, che sfarzo…”
“Davvero forte, signora maestra, e che letto morbido, non sembra una cosa di due secoli fa, sembra che ci abbiano appena dormito! Uh, e guarda lì, c’è ancora la spada…”
“Sapete? Morì in un attentato avvenuto proprio in questa stanza: un contadino al quale, per rubare i campi, aveva fatto trucidare la famiglia lo aggredì mentre era a letto. Il duca riuscì a ucciderlo proprio con quella spada, ma morì anch’egli per le ferite riportate”.
“Brrr, che paura…”

“i'm not a slave to a god that doesn't exist…”


“Massimo, ‘sto diavolo di telefono lo vuoi spegnere una buona volta?”