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domenica 28 luglio 2013

Il passerotto e la farfalla

“Carringia”, lo chiamavano gli amici, eppure il suo fisico non era affatto quello del quasi omonimo campione brasiliano, Manoel Francisco Dos Santos, detto Garrincha, il passerotto.
Il nostro Carringia era invece un ragazzone imponente di un metro e ottanta, ma pure lui, quando scattava sulla fascia destra, era agile e imprendibile come un farfalla, così i compagni lo avevano onorato – sebbene in una versione un po’ dialettale - dello stesso soprannome del più grande dribblatore della storia.
Solo che il suo campo di calcio non era lo stadio del Botafogo, ma lo spiazzo sterrato dietro al cimitero, l’unico posto dove, al paese, negli anni ’60 ci fosse lo spazio per giocare una partita. Le porte erano pali verticali di castagno di altezza diversa, senza neppure una traversa, le delimitazioni del campo da un lato la strada e dall’altro il torrente, e come spalti la scarpata sottostante al muro del cimitero, ricoperta di cespugli di ginestre e rovi. Ma nonostante ciò ogni pomeriggio decine e decine di persone si affollavano per seguire le sfide memorabili fra i vari rioni, fonti di rivalità accesissima, e quasi sempre ad avere la meglio era il Piano di Sopra, la squadra nella quale militava Giorgio Corvacci, “Carringia”, appunto, che faceva impazzire i difensori avversari e segnava caterve di gol.
Giorgio crebbe col mito del calcio, di una realizzazione che passasse attraverso il suo innegabile talento. Ma erano anni difficili, e lavoro al sud non ce n’era, così a diciassette anni, insieme a molti altri, dovette emigrare in Lombardia. Poco male, pensò, lì poteva esserci qualche osservatore di una grande squadra che gli avrebbe consentito di cogliere quell’occasione che attendeva da sempre.
Di giorno lavorava alla catena di montaggio, poi, appena smontato il turno, partecipava ad interminabili partite sul campo adiacente il caseggiato nel quale condivideva l’alloggio con diversi suoi compaesani. Finalmente, alla soglia dei diciotto anni, anche grazie all’interessamento di un dirigente della fabbrica che partecipava a quelle sfide del dopolavoro, fu chiamato per un provino dal Como, squadra che allora militava in serie C.
Il provino andò così così. Un po’ di tecnica innata c’era, del resto c’era voluto un gran talento a  dribblare per anni gli avversari al paese senza mai finire nel torrente, ma il ragazzo era completamente digiuno di tattica, non faceva squadra, era un anarchico, in più di testa non era un genio, ed ormai a quell’età in entrambi i campi non c’era da migliorare troppo, investire su di lui non era conveniente.
Gli venne comunque offerta la possibilità di aggregarsi agli allenamenti della squadra Primavera, più che altro per non dire di no a chi l’aveva raccomandato, ed anche perché sulle prime non ebbero cuore di dargli un responso negativo, soprattutto quando lo videro, lui così grande e grosso, tremare come una foglia in attesa di sapere com’era andato.
Passarono così alcune settimane nelle quali si impegnò come un forsennato, levatacce all’alba per correre lungo l’Adda a fare fiato, poi dieci ore in fabbrica e quindi all’allenamento dove arrivava già esausto ma sorretto da quel grande entusiasmo che non lo abbandonava mai. Perciò fu una vera crudeltà quel che gli combinarono.
L’allenatore a un certo punto doveva pur dirglielo che  l’avventura era finita, che il calcio professionistico non faceva per lui, che faceva meglio ad impegnarsi al lavoro, magari ad iscriversi ad una scuola serale per prendersi finalmente quella licenza media che aveva tentato invano al paese. Ci provò, il buon uomo, ma ogni volta che provava ad aprire bocca gli prendeva un groppo in gola, perché Giorgio si metteva sull’attenti, con un sorriso a trentadue denti – per modo di dire, che l’igiene dentale non era mai stata il suo forte, e c’erano un sacco di assi divelte nel suo steccato – e si aspettava chissà quale comunicazione, magari di essere schierato in prima squadra all’esordio in campionato. E così finiva che il mister rimandava, te lo dirò domani, e Giorgio aveva modo di trascorrere l’ennesima notte in cui poter sognare a buon diritto il nome di Carringia in prima sulla Gazzetta, un contratto a sei zeri, donne e motori a piacimento e poi al mattino vantarsi con gli altri sfigati come lui che avevano lasciato il paese e sbarcavano il lunario in quelle squallide e fredde case di ringhiera avvolte dalla nebbia a mille chilometri di distanza dal paese d’origine.
Gli amici in realtà l’avevano capito bene come sarebbe andata, ma invece di cercare di smontare con delicatezza quei castelli in aria, ci presero gusto a farlo precipitare, che fa sempre bene all’anima avere qualcuno ancora più a terra di te, magari meglio se è uno che un po’ di talento, nonostante tutto, il Signore gliel’ha dato, anche se non è sufficiente per volare alto come un’aquila ma solo come un passerotto.
Uno di loro che faceva le pulizie in una tipografia, si prese la briga di architettare una burla. Con la complicità del compositore di bozze – ché lui l’italiano lo masticava appena - realizzò una copia della Gazzetta tale e quale all’originale con l’unica differenza di una pagina interna in cui si parlava del talento di un giovane meridionale emigrato che, durante un allenamento col Como, era stato notato nientedimeno che da osservatori dell’Inter che avevano proposto al Presidente Moratti di ingaggiarlo subito per sostituire il brasiliano Jair sulla destra. Il titolo inventato dell’articolo, con un gioco di parole in realtà non così benaugurante, era “Corvacci volano su San Siro”, ma il povero Giorgio non ne colse minimamente la più o meno involontaria accezione negativa, e scoppiò in lacrime di gioia quando fecero in modo di recapitargli la copia tarocca del quotidiano sportivo, seguita a stretto giro da una convocazione, altrettanto fasulla, presso la sede dell’Internazionale, a Milano, per la stipula del contratto.
Che dire sui preparativi, sulle telefonate a casa a genitori contadini che non capivano nulla, né di calcio, né delle parole emozionate, concitate e arruffate di Giorgio, inframmezzate da scatti di ultimi gettoni, cadute e faticose riprese della linea, mi vedrete in televisione, andate alla Casa del popolo – ché loro la tv mica ce l’avevano – e allora no, aspettate, il tempo di andare a Milano poi ve la compro io – ma quelli non avevano neppure l’elettricità in casa, prima c’era da fare l’impianto – e dunque meno male che poi i gettoni finirono una volta per tutte, e non c’era altro tempo si doveva correre, il pullman per Milano passava alle 5, si voleva prendere il giorno libero in fabbrica ma quelli niente che dice che c’era una consegna da fare e lui allora ma sì, andaà a dà via el chiul voi e la fabbrica, polentoni, se vediamm’ a Sanziro, li congedò, mescolando dialetti e improbabile futuro.
L’arrivo alla Stazione centrale più o meno una scena di “Totò  Peppino e la malafemmena”, con lui che indossava i panni della Cresima, gli amici che sapevano della beffa ma in fondo gli erano anche grati di stare vivendo quell’avventura, perché lo avevano visto giocare, nello spiazzo dietro il Cimitero, e sapevano che quando scendeva sulla fascia con le sue finte non ce n’era per nessuno e in un certo senso si erano convinti che quella lettera di convocazione, sebbene scritta da loro stessi, poteva essere vera, pur sgrammaticata com’era, tanto nessuno se n’era accorto, né loro che l’avevano scritta fra le risate, né Giorgio che l’aveva letta fra le lacrime.
Ovviamente, alla sede dell’Inter, trovata dopo varie traversie, nessuno li conosceva né attendeva, non furono neppure fatti entrare, sporchi e sudati com’erano, fermati alla guardiola da un tipo alto ed elegante che più che un portinaio sembrava Giuliano Sarti, il portiere della Grande Inter di Herrera, la squadra che continuò a vincere di tutto anche senza l’aiuto di Carringia.
Alla fine in lui si fece strada la consapevolezza di essere stato preso per il culo alla grandissima, eppure la sua reazione non fu la presa di coscienza che il pallone poteva continuare ad essere un hobby, ma per sbarcare il lunario doveva rompersi la schiena come tutti quelli della sua generazione e della sua terra, e così farsi una famiglia, vivere una vita dignitosa, giocare ancora partite ogni tanto, insegnare ai propri figli quella finta che lo rendeva immarcabile.
Invece abbandonò completamente il pallone. Per un po’ lo ripresero in fabbrica, ma non durò, cambiò numerosi lavori, eppure neanche col passare del tempo riuscì a superare quella tremenda delusione. Così a poco a poco cadde in una brutta depressione, e all’età di trent’anni, che ne dimostrava già venti di più, senza una donna e senza un obiettivo, tornò al paese e lì si arrangiò a sopravvivere, nei momenti buoni, con qualche giornata nei campi a poche lire o solo per un pasto caldo, mentre quando l’oscurità era così forte da non fargli vedere neppure la via di casa allora passava le intere giornate nei bar a spendersi a birra la piccola pensione della madre, lamentando il suo amaro destino a gente che, ancora una volta, lo ascoltava qualche minuto solo per consolarsi che c’era chi stava peggio e poi, indifferente, lo abbandonava lì, con cento lire buttate sul bancone per lavarsi la coscienza e fargli fare un altro bicchiere da un quarto, e a ridere del suo consunto giornale porno sotto il braccio, che certe volte glielo dicevano, se vuoi fare lo sporcaccione, almeno non farti notare, fai come fanno gli altri, nascondi la rivista dentro un quotidiano.

Carringia – che il soprannome nonostante tutto gli è rimasto – quella rivista la porta ancora sotto il braccio, ma non per mancanza di discrezione, tutto il contrario, perché i sogni non glieli estirpi del tutto neppure a un vecchio alcolizzato di settant’anni, quanti ne ha ora.
Certe sere se ne va verso il cimitero – che la gente pensa vada a pregare o addirittura che parli coi morti, quel pazzoide – sale a fatica la scarpata sottostante al muro di cinta, si accovaccia dietro ad un cespuglio di ginestra, nello stesso posto dove tanti anni fa c’erano gli spalti di quel campo improvvisato, tira fuori il porno, si mette comodo e, con studiata lentezza lo apre alla pagina centrale, dove c’è la modella del mese, la più provocante.
Ma a lui le tette della pin up non interessano affatto, o meglio, non in quel momento e in quel posto. E’ ben altro che vuole guardare, di cui vuole ancora una volta godere. Sotto al poster, ben nascosta agli sguardi ed alle prese in giro, conserva la pagina della Gazzetta del 13 agosto 1966, del giorno in cui il presidente Angelo Moratti aveva preso la sacrosanta decisione di ingaggiare nell’Inter quel giovane campione.

E da quell’antica tribuna ora coperta di rovi, se hai occhi buoni e soprattutto cuore e voglia di sognare, pure a distanza di quasi cinquant’anni lo puoi ancora veder volare sulla fascia destra, lungo il torrente, a seminare avversari come birilli, fra gli applausi dei tifosi, agile e imprendibile come una farfalla.

giovedì 18 luglio 2013

Cose belle

Mia figlia l'altra notte aveva paura di addormentarsi.
Le propongo di pensare a cose belle.
E' così che mi diceva mia madre quando ero io ad avere paura.
"Sì, papà, ma quali sono le cose belle, me ne suggerisci qualcuna?"

Le cose belle.
Ognuno ne ha di proprie, per addormentarsi.

Una bella ragazza, un incontro mai avvenuto, che nel sonno puoi far avverare.
Una spiaggia al tramonto, leggere ascoltando il mare.
Il ritorno di un amico partito tanto tempo prima.
Un mondo divertente in cui tutti parlano in rima.
Fiumi di gelato, colline di caramelle.
Gattini soffici e morbide ciambelle.

E periodi in cui per riuscire a riposare sognavo di gettarmi dal balcone.
L'unica via per figurarmi un po' di quiete, l'estrema ribellione.
O, ancora, essere il Sindaco, ma no, che dico, Dio
usare il mio potere per giungere all'oblio.

Le cose belle, figlia mia ...
Fammi posto, ci facciamo compagnia.
Clic.







venerdì 12 luglio 2013

Oggi non si scrive nulla, domani sì

E' questo il destino di un paese in crisi.
Partorire uomini in crisi. Economica, sentimentale, di identità.
E allora ci si barcamena, ci si adatta, ci si industria.
Se prima percorrevi i viali in cerca di una prostituta, ora li percorri in cerca di un'auto che si fermi e che ti carichi.
Se prima l'amore era un'optional, ora ti accontenti del modello base.
Se prima eri Nessuno, atteggiandoti ad un novello scaltro Ulisse, ora non sei nessuno e basta.
E quando leggi la stantia battuta "oggi non si fa credito, domani sì", sei addirittura portato a crederci, e ti segni l'appuntamento per la mattina successiva.
Per una nuova illusione, per una nuova delusione.