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venerdì 20 marzo 2015

Di primavere, odissee ed eclissi

E così è di nuovo primavera.
Che stai lì ad attendere per mesi che l'inverno finisca e poi una mattina non te ne sei accorto e già sono spuntati i primi timidi fiori e le ragazze, ad un flebile raggio di sole, ti rapiscono di nuovo con la pelle non ancora abbronzata... "Nausicaa dalle bianche braccia" ricordi le traduzioni dal greco dell'Odissea?
Che è la prima volta senza Pino, che condivideva con me l'ansia mista a sgomento di fronte ai cambiamenti inevitabili e pure così densi di aspettative da non dover essere per forza frustrate.
"Che paura 'a primmavera, nun sai cchiù che t'aspettà e che succere", questa frase tratta da Bella 'mbriana ha campeggiato per anni sulla parete della mia casa di studente a Lancusi, scritta sulla gamba di un jeans della mia ragazza di allora appeso al muro come un'opera postmoderna, l'epigrafe dell'incolmabile iato fra quel che dev'essere e quel che sarà realmente.
 Quando le montagne che vedo da qui ancora spoglie e brulle si copriranno di verde compatto come muschio su una pietra di fiume, e il mio cuore ancora una volta avrà capito che ci sono già dentro e tocca aspettare la prossima, allora mi volterò indietro a chiedermi se questo timido sole che oggi ha pensato di eclissarsi per un po' non stesse semplicemente concedendo una nuova occasione a chi come me è sempre in ritardo e si accorge della primavera quando ormai è estate, si è già suonato, nuotato, sudato e settembre dietro l'angolo non sembra una sfida bensì un rifugio sicuro...
Invece ora che primavera è nell'aria, come cantava quel poeta, ogni profumo, respiro, anelito di vita che rinasce è un'occasione da mancare rigorosamente, un bicchiere mezzo rotto, una mano scivolosa che prova ad afferrarti, una bellezza così intensa e struggente che è opportunità ma pure prigione.
Benvenuta, primavera, amata stagione.

sabato 14 marzo 2015

Schubert e l'espiazione

Sto cavalcando un focoso destriero lungo i viali alberati della mia tenuta di campagna quando un trillo mi strappa ai confortevoli meandri del sonno.
Riconosco la melodia, è una sonatina di Schubert. Probabilmente l’opera 137 n. 2, anche se l’esecuzione, molto meccanica, lascia a desiderare.
Non capisco subito da dove provenga, del resto nel castello a quest’ora del mattino c’è sempre una notevole animazione, l’attività quotidiana riprende ed ognuno è intento alle proprie occupazioni, i suoni si rincorrono. Non fosse stato per la sequenza inconfondibile di note avrei potuto pensare al maggiordomo che aveva pestato la coda di un gatto in cucina. Più probabilmente è mia figlia che sta esercitandosi col violino ed ha preso una stecca.
Sono indeciso se alzarmi oppure girarmi dall’altro lato e continuare il sogno interrotto – il cavallo sta sicuramente scalpitando per riprendere il galoppo! – quando si apre la porta della mia camera da letto.
“Chi è che si permette di entrare senza prima annunciarsi?”
Nessuna risposta. Ma sento dei passi. Qualcuno ha fatto ingresso e si avvicina al mio talamo. Le imposte sono ancora socchiuse, il sole che pure sarà già abbastanza alto si è fatto strada a malapena attraverso le fessure per cui la stanza giace in quella che fino a un momento fa era una piacevole penombra e ora è diventata invece nascondiglio ideale per un’insidia.
Sono già scampato in vita mia a più di un attentato. Non è per niente facile essere il signore di un feudo così esteso. Occorre usare il pugno di ferro con i sudditi, e io l’ho fatto. E perciò sono molti quelli che mi odiano e alcuni di loro hanno provato anche ad uccidermi, quando se n’è data loro l’occasione. Non è molto tempo che un villano eludendo le guardie si introdusse nel mio appartamento brandendo un coltellaccio e si avventò contro di me. Ma era privo di quell’esperienza di combattimento datami dai lunghi anni di accademia, così che non mi fu difficile scrollarmelo di dosso e con un gesto elegante trafiggerlo con la mia daga.
Da allora nessuno più aveva più osato.
Eppure adesso c’è quest’ombra inquietante.
Calcolo la distanza fra il letto e la porta. Troppa, per essere certo di poter fuggire incolume. E poi scappare non è nel mio carattere. Come un capitano non abbandona la propria nave, neppure io abbandonerò mai il mio castello.
Ma la porta si apre di nuovo, altre piccole ombre fanno ingresso nel mio sancta sanctorum.
Gli occhi si stanno abituando all’oscurità e mi accorgo con sollievo che riesco ora ad individuare quelle figure, a scorgerne i contorni, a capire la loro posizione e dunque a potermi difendere.
Non sono invece sicuro che loro mi stiano vedendo. Sebbene di certo armati di cattive intenzioni nei miei confronti, piuttosto che dirigersi alla mia volta percorrono la stanza lungo il tappeto che si srotola da una porta all’altra. Sembrano disorientati quasi come me, si guardano intorno, osservano gli arredi e i quadri alle pareti.
Scivolo silenziosamente al lato del letto, provo a nascondermi, ma continuo a osservare da oltre il bordo del materasso. Non l’avessi mai fatto! Le mie pupille dilatate rimandano un’immagine a dir poco soprannaturale che mi fa contorcere dallo spavento. A me, che pure ho affrontato nemici terribili.
Perché non si tratta di uno sporco villico armato, di quelli che solitamente vogliono la mia vita e che ho fatto giustiziare a grappoli.
Nel buio vedo brillare due occhi di bambino.
Il corpo è diafano, emana una luce fredda. Ne distinguo il contorno, esaltato da una minuscola fiaccola – almeno così mi sembra – che la piccola anima reca con sé, ma che contrariamente ad ogni legge fisica invece di illuminare lo spazio circostante illumina soltanto il suo esile corpicino. Un fuoco fatuo. Uno spettro, certamente.
Nella mia esistenza ho affrontato vittoriosamente ogni genere di insidie, ma sono stato sempre un seguace del positivismo, non ho mai creduto ai fantasmi. Solo che, a differenza di molti, questo mio scetticismo non mi ha generato disincanto rispetto a fenomeni apparentemente senza spiegazione, tutt’altro, ne sono stato sempre sanamente terrorizzato.
Così, invece di reagire come avrei fatto in altre occasioni, mi rannicchio ancora di più accanto al letto. Dev’essere l’anima di un fanciullo. Forse il figlio di uno di coloro che ho mandato a morte. Torna a vendicarsi. E i fantasmi non puoi trafiggerli con la spada. Provo anche a brandirla, è ancora accanto al baldacchino, ma non ci riesco, sembra sfuggirmi, un miraggio anch’essa?
Sconvolto, sono preso da un mancamento, perdo per un attimo conoscenza.
Non sono più a cavallo del mio destriero. Ora sono il mio falco, al quale il falconiere ha tolto il cappuccio per lanciarlo verso la luce. Le mie braccia sono ali, penne la mia armatura, le mie mani artigli pronti a ghermire la preda.
Sorvolo il castello, ne apprezzo le forme regolari, geometriche, le mura possenti dalle quali ho fatto scagliare frecce micidiali, le torri merlate donde le mie guardie osservano i movimenti nelle valli circostanti e prevengono ogni pericolo.
Sono un falco, volo più in alto di tutti gli altri uccelli. Disegno ampie volute nel cielo, ora sono sulla torre dell’orologio, gli altri volatili fuggono atterriti, come hanno sempre fatto tutti i poveracci al mio passaggio pensando che la morte avesse scelto il loro turno.
Con la mia vista fenomenale scorgo un movimento molti metri più in basso, nel cortile, nei pressi della splendida fontana monumentale. Un pettirosso che sta chinando il collo per abbeverarsi. Sarà quella la mia preda di oggi.
Sono un falco, reclino le ali in modo da fendere l’aria e scendo in picchiata.
Non vedo più le nuvole, le torri, le mura, i merli, le campagne, nei miei occhi soltanto la preda, un filo invisibile ci unisce da quando l’ho eletta a mio obiettivo e quel filo sto percorrendo alla velocità del suono, gli artigli già in posizione per afferrarla, quando il pettirosso si volta verso di me e i suoi occhi…
… i suoi occhi sono gli stessi del bambino!

Mi risveglio affannato, il cuore sembra esplodermi nel petto.
Sono rotolato sotto all’alcova, e da lì mi vedo circondato da tanti piedini.
Le piccole anime mi hanno finalmente individuato.
Ora il pettirosso sono io e loro i falchi.
Portatemi con voi, anime del purgatorio! Fatemi scontare una volta per tutte le mie malefatte! Siete i figli morti di fame perché diventati orfani. Siete i rami potati quando l’albero è stato stroncato. Siete i fiori mai sbocciati, i frutti deturpati dalla siccità e dal terribile uragano. Leggetemi la sentenza, condannatemi ad espiare la morte prematura e violenta dei vostri genitori per mano mia!
Sono qui. Come il capitano non abbandona la nave, io non abbandonerò mai il castello, perché qui devo pagare per le mie colpe. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
Poi di nuovo un trillo, questa volta non è Schubert ma un motivo che non conosco. Forse la musica dell’inferno, il sabba che mi stanno preparando. Un ritmo tribale, straniante, che sale, cresce sempre più forte. E io, sconvolto, perdo di nuovo coscienza. Questa volta sono un serpente, scivolo via in una fenditura fra le rocce.
Ma tornerò, non lascerò mai il mio castello.

“Massimo, per piacere, rispondi a quel dannato telefono! Hai scelto una suoneria davvero orribile!”
“Mi scusi signora maestra, è il telefono di mio fratello grande, forse è una canzone di Marilyn Manson… Lo sa che quello è fissato con il death metal!”
“Che tempi! Capisco che ormai ‘sti cellulari ve li portate dovunque, pure qui in gita al museo del castello dove invece dovreste solo imparare, ma almeno fate come Sabrina, che si è messa la suoneria di musica classica. Che era, Schubert?”
“Ah, non lo so mica, forse era Lupèn, Sciopèn, come si chiama lui, è una cosa che l’ha messa papà, duepalle, appena posso la cambio. E poi questa stanza è in penombra, dobbiamo tenere accesi i telefonini per farci luce.”
“E’ per creare atmosfera, questa era la camera da letto del feudatario. Si narra fosse una persona assai sanguinaria con i propri sudditi, ma si trattava bene, guardate che stanza elegante, osservate, avvicinatevi al letto, così, tutt’intorno, che arazzi, che sfarzo…”
“Davvero forte, signora maestra, e che letto morbido, non sembra una cosa di due secoli fa, sembra che ci abbiano appena dormito! Uh, e guarda lì, c’è ancora la spada…”
“Sapete? Morì in un attentato avvenuto proprio in questa stanza: un contadino al quale, per rubare i campi, aveva fatto trucidare la famiglia lo aggredì mentre era a letto. Il duca riuscì a ucciderlo proprio con quella spada, ma morì anch’egli per le ferite riportate”.
“Brrr, che paura…”

“i'm not a slave to a god that doesn't exist…”


“Massimo, ‘sto diavolo di telefono lo vuoi spegnere una buona volta?”