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sabato 5 luglio 2014

Capitolo prima

Dicono che il tempo lavi via le ferite. Non so se dicano precisamente così, non sono mai stato buono con le citazioni e ci sarebbe da ridere visto che faccio l’avvocato e le citazioni sono il mio pane quotidiano. Perché a pensarci bene sarebbe più appropriato dire che il tempo guarisce le ferite, quelle che puoi lavare via sono solo le macchie. Comunque, il senso è quello: devi aspettare e i bordi di quello squarcio profondo e scarlatto smetteranno di attirarti, voluttuosi come due labbra carnose, verso il ricordo del baratro in cui eri sprofondato. In quel buio denso dove alla fine era diventato più comodo sdraiarti che affannarti per risalire. Un giorno, dicono, aprirai semplicemente gli occhi e quelle pareti levigate che si stagliavano verso l’alto senza il minimo appiglio avranno fatto posto ad uno spazio aperto e libero nel quale provare a ripartire. Verso dove però non te lo dicono, i saputi. Senza capire che il problema sta tutto lì. Perché quando io, Walter e Federico avevamo mosso i primi passi incerti in quello sconfinato orizzonte per poco non eravamo inciampati di nuovo.
L’anno era il 1989, che sarà ricordato per eventi epocali, primo fra tutti la tanto attesa caduta del muro che divideva le due germanie. Ma noi tre – la banda dei quattro ci chiamava ancora qualcuno e non vi stupite che il numero non corrispondesse, ci son stati esempi ben più illustri, da Dumas al nostro insegnante di karate che ci faceva allineare in coppie di tre – appena diciottenni ce ne ricorderemo soprattutto per l’incredibile avventura che ci trovammo a vivere in quell’estate, una delle più calde e afose da secoli, a quanto dicono. Ma non state troppo a credere a quel che si dice in giro, spesso si tratta solo di frasi fatte, pettegolezzi e voglia di stupire.
Comunque caldo ne faceva davvero. Infatti Federico, il nostro buon Freddie, esperto di meccanica, stufo di arrostirsi le chiappe su quei sedili di vera plastica aveva pensato bene di installare sulla sua 127 Special dal motore truccato un impianto di aria condizionata smontato da un camion allo scasso di Babbalàno sulla statale. E il suo compito lo svolgeva fin troppo bene, potente com’era. Così violentavamo le strade assolate del paese come un asteroide di ghiaccio che impatta nell’atmosfera, le lamiere abbrustolite del cofano motore scricchiolavano, i vetri coperti di brina sembravano lì lì per frantumarsi e finire in mille pezzi come le nostre tonsille stremate dai ripetuti sbalzi di temperatura.
Fu così che una mattina di quel luglio rovente, causa la visuale ridottissima, per un pelo non investimmo una ragazza che si era sporta dal ciglio della strada per chiedere un passaggio. Non la vedemmo affatto, sentimmo solo la parolaccia urlata nella nostra direzione quando eravamo ormai passati e allora Freddie, notoriamente intollerante alla cattiva educazione degli altri, inchiodò e innestò una rapida retromarcia. Disse a Walter con voce resa roca dal gelo di aprire il finestrino per vedere chi cazzo di stronzo di merda si fosse permesso di mandarci così inopinatamente a quel paese.
Bastarono pochi centimetri e già quegli occhi lucenti e intriganti si erano infilati dalla fessura nei nostri cuori. E quando il vetro congelato, fra scricchiolii e crepe, fu finalmente aperto del tutto, il viso perfetto di Lara si era già a buon diritto impossessato di noi, subito dimentichi della parolaccia, dell’incidente sfiorato, delle stalattiti che cadevano dal tettuccio come spade sulle nostre teste a causa dell’ingresso repentino dell’afa.
Se ne stava lì a guardarci uno ad uno con un sorriso carico di promesse. I seni guizzanti a mala pena contenuti da una minuscola maglietta con il logo degli Stones – e un logo sembrava pure la lingua penzolante di stupore di Freddie, novello Jagger - le mani intrecciate sul bordo della portiera, inscritta nel rettangolo del finestrino, sullo sfondo le colline coperte di ulivi, ineffabile Gioconda cilentana.
“Per poco non mi tiravate sotto”, ammiccò, “ma se mi date un passaggio forse vi perdono”.

Era il 1989 e fu quel finestrino disceso a fatica il nostro personale crollo del Muro.