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domenica 25 febbraio 2018

Mettiti nelle mie scarpe

Nicola rovistava sotto la scala. Tirò fuori un paio di scarpe da ginnastica malandate. Tolse quelle buone e le calzò. Era pronto per la partita. Minicantonio disse: “bella pensata, così mamma non mi rompe il cazzo”, e si levò pure lui i mocassini già consumati, dai quali emersero calzettoni strappati agli alluci. Altre non ne aveva, ma non sembrò interessargli. Afferrò il supersantos e si mise a scartare avversari invisibili.
Facemmo le squadre, i capitani indicarono i propri compagni, a cinque contro quattro qualcuno doveva fare un tempo per parte. Toccò a me: l’ultimo scelto, quindi il più scarso. Pensai di andarmene, c’ero rimasto troppo male che mi avessero preferito Liscio, che secondo me era lui la vera pippa. Ma avevo scarpe da ginnastica nuove e volevo giocare. Facemmo prima qualche tiro, e provammo le punizioni. “Con quelle, puoi dare un bell’effetto”, e mi guardavano con invidia, ma io non ci riuscii, mi venne fuori un colpo dritto che il portiere bloccò facilmente. Minicantonio parlava sottovoce ad un compagno, e mi parve di sentire i suoi pensieri: “perché lui deve avere quelle belle scarpe, e io che sono un campione gioco scalzo?”.
Gli mollai uno schiaffo.
“Guarda che non t’ho sfottuto, stavo dicendo un’altra cosa”, si teneva la guancia. Gli altri si misero intorno, a cerchio, come in un anfiteatro, sentivano l’odore del combattimento, del sangue. Ero più alto, più grosso. Non mi feci pregare, e gli diedi una spinta. Lui allora caricò a testa bassa, ma mi scansai e quando fu passato gli sferrai un calcione nel culo che finì lungo disteso. Qualcuno rise. Non gli diedi tempo di alzarsi e gli fui addosso. Lo tenevo fermo e gli bloccavo i polsi. Dopo un po’ si arrese. Nicola si avvicinò, cauto: “ma che t’aveva detto?”. “Non so’ cazzi tuoi”, risposi. Si fecero di nuovo intorno. C’era silenzio.
“Non sono io il più scarso!” urlai. “E’ Liscio!”.
Liscio, innocente eppure colpevole, uggiolò, come un cane bastonato.
Ancora furioso, presi il pallone e lo scagliai verso il muro della scuola, ma lo svirgolai e frantumai la finestra della quarta. Si sentì un fischio. Era la guardia. Se ci beccava ce la faceva pagare. Nel fuggire, Minicantonio, ancora scalzo, si ferì sui vetri rotti. Non fosse stato per quelle scarpe di merda, non sarebbe successo niente, ecco la verità. Me le tolsi e gliele lanciai: “Secondo me ti vanno bene”.
“E tu come fai?”
“Me ne fotto”.
Tenetevi le scarpe, e tenetevi pure Liscio. Vaffanculo.

Ma la prossima volta le squadre le faccio io.

4 commenti:

  1. Che bello questo breve racconto dove c'e' tutta l'adolescenza in poche righe. La rivalita' e la fratellanza, l'invidia e lo slancio generoso. E sopra tutto la cocente delusione di essere scelto per ultimo, una delle prime metafore della vita.
    massimolegnani

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  2. ... Delusione che solo chi ha provato sul serio è in grado di raccontare :)
    Contento ti sia piaciuto, è un racconto a cui tengo molto.

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  3. Esperienze vissute e rivissute: essere scelti non dico per ultimi, ma già a metà, era devastante per l'amor proprio.. e purtroppo le squadre le facevano e le fanno quelli più forti. Da sempre. E non è cambiato nulla.

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    1. Che poi come vivi le cose è questione di carattere. Se venivo scelto per ultimo mi incazzavo. Se venivo scelto per primo pensavo che fosse solo perché il capitano era mio cugino... È difficile anche scegliere, in fondo. Forse ancora di più. Meglio lasciar fare agli altri, primi, ultimi, chi se ne frega, ormai. Siamo già ai supplementari.

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