Visualizzazioni totali

venerdì 24 aprile 2015

Asocial network

Nella vita reale non esci, non vedi nessuno, il tuo migliore amico fa di cognome Di Vano?
Eppure, trascinato dalla moda imperante, e dopo aver resistito per anni, sei costretto ad iscriverti ad un social network. Perché lo fanno tutti, perché ti sei scocciato di fare lo snob, o di giustificare le ragioni della tua assenza con battute scontate e morettiane del tipo "mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?".
E ora? Dopo aver osservato a lungo prima di agire, come i bambini, per imparare, ti trovi a dover ammettere che non hai capito proprio nulla.
Non hai capito ad esempio perché, se ti ingegni con il sudore della fronte a scrivere una cosa che ti sembra intelligente e ti aspetti chissà quante notifiche, non ti caca nessuno, e poi basta un gattino che precipita da una scala per avere migliaia di condivisioni.
Non hai neppure capito cosa siano i selfie. Ai tempi tuoi si chiamavano autoritratti. O seghe.
Non sai nemmeno cucinare, e quindi non puoi postare la foto della torta. E non vai mai a cena fuori, per effigiare quei gustosi manicaretti che comunque la tua colite nervosa non ti permetterebbe di assaggiare.
Non ti capita mai niente di interessante, o meglio: a te il tale evento sembrava piuttosto curioso e simpatico, e lo hai pure scritto, ma dal (non) riscontro che ne hai ti rendi conto con il massimo stupore che era invece molto più virale un rutto.
E quindi ti trovi a lottare (e spesso a perdere) con la tua autostima, che ormai si misura a colpi di "like".
Ma per te che stai tanto bene a casa tua da solo, col telefono staccato, le pile scariche, un panorama incantevole da guardare rigorosamente da dietro i vetri, non sarebbe molto più appropriato iscriversi ad un asocial network? Pensaci! Un facebook dove invece di avere amici hai "indifferenti" (potresti chiedere e dare l'indifferenza a tantissime persone, molte di più dei quarantadue amici raggiunti a fatica su fb); dove il tuo "stato" è il Tibet; dove sotto ai post non si mette "mi piace" ma "non disturbare"; dove invece di pubblicare foto di deliziosi animaletti si postano cani rognosi; dove i selfie si fanno come un'immagine segnaletica con sopra il fumetto con scritta "che cazzo hai da guardare?".
Forse sarebbe proprio la soluzione ideale, per tipi come te.
Che invece, fra le mille cose che avresti da fare, stai lì a pensare ad una frase divertente, ad una foto che abbia un punto di vista diverso, ad un pensiero ancora non pensato.
E invece di fare qualcosa di utile, anzi di necessario, come andare a pagare le bollette scadute, sei lì in fila per comprare un gattino.

martedì 7 aprile 2015

Il cimitero dimenticato

Diversi anni fa stavo conducendo una ricerca genealogica commissionatami da una famiglia del luogo, quando mi imbattei in un vero e proprio mistero, del quale non avevo finora avuto il coraggio di scrivere.
Dopo aver studiato i registri all’Archivio di Stato ero passato ad analizzare quelli parrocchiali, e fu lì che venne fuori la prima incongruenza, da cui prese le mosse quanto accadde più tardi.
Fino al 1806 gli atti di morte indicavano la tumulazione avvenuta nella chiesa. Nel livello sottostante al sagrato vi erano ampie sale nelle quali da secoli venivano deposte le salme tanto che pur essendo trascorsi più di due secoli, ancora gli anziani chiamano ’o cimmitèrio l’angolo sul lato sud dal quale si accedeva a quei locali, successivamente interrati.
A partire da quell’anno l’editto napoleonico di Saint-Cloud, per ragioni di igiene, aveva disposto che le sepolture avvenissero in aree appositamente individuate all’esterno del centro abitato, ad almeno un miglio. Da allora, infatti, i registri non riportavano più la tumulazione in chiesa ma in un “camposanto”.
Sulle prime la cosa non mi colpì affatto, sapevo benissimo dove si trova il cimitero, nei pressi della Cappella della Madonna del Carmine che è, appunto, ad un chilometro esatto dalla piazza del paese, e non avevo motivo di dubitare che il riferimento al “camposanto” fosse proprio a quel terreno.
Però a partire dalla fine del 1817 veniva indicata di nuovo la tumulazione dei cadaveri in chiesa, e solo dal 1840 si parlava di nuovo di sepoltura nel camposanto.
Cos’era successo? Per quale ragione il cimitero non era stato più utilizzato per oltre vent’anni? La cosa mi incuriosì, tanto che provai a trovare una spiegazione su alcuni testi e in primis su una dettagliata Storia del nostro paese pubblicata proprio in quel periodo. Lì vi era soltanto qualche riferimento alla questione e piuttosto che chiarire i miei dubbi ne apriva altri. Vi si leggeva che l’amministrazione comunale nel 1817 aveva deliberato all’unanimità la realizzazione di un nuovo cimitero, ma per le resistenze della popolazione che preferiva che i propri cari fossero sepolti in chiesa i lavori erano proseguiti a rilento per essere terminati soltanto nel 1840. Si parlava espressamente di quello che esiste tuttora, adiacente alla Cappella, anch’essa riedificata proprio in quegli anni sulle fondamenta di un piccolo edificio sacro precedente, da tempo diruto. La vulgata popolare riferiva di una visione della Vergine apparsa ad una “pia donna del luogo” per sollecitare la ricostruzione della chiesa e del cimitero proprio in quel punto esatto.
Cosa non tornava, allora? Il vuoto di un decennio, fra il 1806 e il 1817, in cui le sepolture non avvenivano più in chiesa ma in un “camposanto” che però non poteva essere quello attuale, finito nel 1840.
C’era stato per un breve periodo un altro cimitero? E dove? I libri non mi fornivano altre informazioni e interrogati alcuni anziani alla mia richiesta sembravano cadere dalle nuvole, era come se fossi stato il primo dopo due secoli ad accorgermene.
Per un poco non ci pensai più, e tornai al lavoro sui registri. Ero arrivato appunto a quel fatidico 1817. Fino ad allora le ricerche genealogiche erano state agevoli, perché ogni anno non morivano che una ventina di persona al massimo, per cui si trattava di sfogliare appena qualche pagina per individuare il nominativo che mi interessava. Rimasi alquanto sorpreso nel notare che, invece, in quell’anno i morti erano stati oltre centocinquanta. In un paese che all’epoca contava appena 800 anime stava a significare che quasi un quinto della popolazione aveva perso la vita. La ragione? Anche quella storicamente nota e documentata, come potetti approfondire più tardi. Un’epidemia definita di tifo petecchiale che proprio nel 1817 raggiunse la sua massima diffusione in tutta Italia, e anche nel nostro territorio, complici le pessime condizioni igieniche, falcidiò una fetta consistente della popolazione.
Si era trattato di una vera e propria pestilenza dalla quale era stato improbo provare a salvarsi, la triste riprova era proprio la morte del parroco, annotata nei registri. Quello stesso che aveva diligentemente preso nota del continuo trapasso dei suoi concittadini ed aveva prestato loro indefessamente i conforti religiosi in articulo mortis, evidentemente era stato contagiato. La pagina successiva infatti, era compilata con grafia differente da quella di tutti gli altri certificati; era quella di un altro sacerdote, e riportava infatti proprio la morte del povero prete.
Avevo letto i resoconti delle varie epidemie di peste del seicento, dalla Morte Nera veneziana alle pagine immortali del Manzoni sul contagio a Milano, e conoscevo bene come all’addensarsi delle nubi della diffusione del morbo corrispondesse l’immane sconforto delle popolazioni, del tutto ignare delle cause (attribuite ad una punizione divina) e ancor di più sulle condotte di prevenzione, anche le più elementari.
Immaginavo che, pur non trattandosi propriamente del morbo della peste, un’analoga atmosfera da girone dantesco fosse calata anche sul nostro piccolo centro in quel famigerato 1817, in cui ogni famiglia ebbe uno o più lutti e tutte furono preda del contagio e della disperazione più profonda.
Da un saggio del dott. G. Palloni, “Commentario sul morbo petecchiale”, pubblicato nel 1819, ero venuto a conoscenza di alcuni dettagli che avevano acuito la mia impressione di un evento vissuto come una vera e propria calamità naturale dalla popolazione, del tutto impotente di fronte ad un morbo dalla diffusione così virulenta e che si presentava in maniera così orrenda e dagli esiti quasi sempre mortali.
Si trattava di una serie di “sconcerti del sistema gastrico e nervoso” (così li definiva l’autore) accompagnati ben presto da una febbre maligna e violentissima in uno alla quale apparivano sul corpo degli esantemi (le “petecchie”) che portavano nel giro di due-tre giorni ad una diffusa e profonda desquamazione per cui il malato, nella fase terminale, appariva come se migliaia di uncini gli avessero lacerato le carni e fosse stato poi lasciato essiccare al sole. Anche le interiora, visionate in sede autoptica, presentavano un elevatissimo grado di putrescenza tanto che appariva quasi impossibile distinguere i singoli organi in quella “poltiglia putrida”. La percentuale di mortalità era vicina al settanta per cento.
L’autore poi si diffondeva nel descrivere con dovizia di particolari macabri i vari casi, e io – forse per quella ricerca genealogica che mi aveva fatto sentire “vicino”, quasi conoscente di quei miei antichi compaesani – non ebbi la forza di continuare nella lettura di quelle tristi pagine. Tornai alla mia ricerca fatta di soli nomi e date e per un poco me ne dimenticai. Fu invece un altro strano episodio che mi fece poi tornare in mente la storia della malattia e di quel cimitero “dimenticato”.
Ero stato avvicinato, in quelle settimane, da un anziano studioso di storia locale, il quale coglieva spesso l’occasione per narrarmi una serie di aneddoti sulle vicende passate, delle quali era appassionato. Per lo più storie minuscole di uomini delle cui gesta non esistevano carte scritte ma soltanto una fervida tradizione orale che, nel continuo tramandare di bocca in bocca aveva probabilmente lasciato quel poco di verità che restava fra le maglie del ricordo per restituire soltanto racconti di pura fantasia. E però amavo ascoltarle, quelle storie, come quel giorno davanti ad un gelato, al tavolino di un bar della piazza posto strategicamente all’incrocio delle correnti per trovare un po’ di refrigerio dalla calura di quell’estate.
Vi dico subito che anche a lui avevo chiesto notizie del cimitero scomparso e non avevo avuto risposte soddisfacenti. Così mi sorprese molto ascoltare il racconto degli straordinari poteri di Teresa Gatto, “Trèsa ‘a hatta”, come veniva chiamata in dialetto. Non di rado i suoi “cunti” presentavano elementi soprannaturali, circostanza così comune nelle narrazioni popolari che piuttosto che inquietarmi aveva sempre l’effetto di divertirmi, rimandandomi a quelle storielle attorno al fuoco di quando eravamo piccoli, con le quali i nonni ci regalavano un piccolo brivido come ricompensa per avere”fatto i bravi”, o aver aiutato i genitori o finito tutta la carne. Ma ascoltare la storia della “Gatta” fu ben diverso, come sentirete.
Teresa parlava con i morti. E sfruttava questa sua capacità, lei che era sola e nullatenente, per chiedere ed ottenere cospicue elemosine in cambio di un messaggio dall’aldilà. Fosse capacità di immedesimazione psicologica o vero e proprio potere, fatto sta che le parole che lei riferiva esserle state dette dai defunti erano sempre così apprezzate dai suoi compaesani che, vuoi per convinzione, per scaramanzia (non si sa mai!) o per pura benevolenza, non le facevano mai mancare la carità.
Il fatto che mi narrò il Professore (così lo chiamavano tutti) doveva essere accaduto nella seconda metà dell’ottocento. Mi raccontò che Teresa, nel suo consueto giro per le case, s’imbatté in una vedova che invece l’accusò di approfittare delle disgrazie altrui. Per convincerla, Teresa provò a farle il nome del marito, dicendole che si era lamentato dall’oltretomba di non avere avuto mai in tanti anni una messa in suffragio, e la donna allora – forse punta sul vivo? - la cacciò via in malo modo, facendola finire con una spinta violenta lunga e distesa sul selciato. Teresa, che pure aveva già una certa età ed era esile esile, ma agile proprio come una Gatta, si rialzò rapidamente come se non fosse successo niente, e mentre si ripuliva il grembiule dalla polvere guardò intensamente la donna – che nel frattempo era rimasta in piedi sulla soglia, a busto eretto e con le mani sui fianchi, soddisfatta del suo gesto – con un sorriso beffardo. Quindi le disse lentamente, quasi sussurrando: “verrà un giorno in cui mi pregherai di accettare la tua elemosina”.
Passò qualche tempo e una notte la donna, che si chiamava Carmela e viveva in una zona appena fuori paese, chiamata le Logge, fu svegliata da strani rumori, un misto di voci sussurrate e passi pesanti. Pensò subito ai briganti, che a quel tempo infestavano le campagne e non di rado si spingevano a razziare anche i paesi. Lei era una donna sola, e aveva una dispensa ben fornita, un ottimo obiettivo. Subito balzò dal letto, scese le scale e si rifugiò in cantina, si accosciò fra i sacchi pieni di ogni ben di dio, tutti cifrati con le proprie iniziali, e si mise a spiare fra le assi dello steccato. Quel che vide non furono i briganti ma qualcosa che la lasciò ancora più stupita. Lungo la via di campagna che costeggiava la casa e proseguiva verso il fiume stava passando una processione, sentiva le preghiere mormorate e vedeva una folla piuttosto numerosa percorrere il sentiero. L’abitazione era posta a un livello più basso rispetto alla strada, di modo che lei, da dove si trovava, non riusciva a vedere le facce, ma notò che tutti i fedeli avevano qualcosa di lucente, una candela, forse, o una piccola fiaccola, proprio come nella via crucis del venerdì santo. Solo che era l’inizio di novembre, la pasqua era lontana. Non riusciva a raccapezzarsi, le processioni non passavano mai per le Logge. La zona dove lei abitava era del tutto estranea al tragitto consueto che partiva dalla chiesa e solcava il centro abitato. La via che passava da casa sua partiva, sì, dalla Chiesa, ma conduceva soltanto al fiume. E… al cimitero!
Carmela rabbrividì per un attimo, capace che si trattasse di un funerale? Ma un corteo funebre di notte non si era mai visto, il defunto veniva vegliato fino all’alba e solo con la luce del sole accompagnato all’estrema dimora. Era una donna coraggiosa, e ancor di più curiosa, non resistette al dubbio e uscì fuori, fino al vialetto. Effettivamente si trattava proprio di un accompagnamento, davanti al popolo procedeva il catafalco su ruote, trainato da due cavalli neri. Ma chi era morto? Non aveva sentito suonare le campane…
Superò la fila che procedeva lentamente e dopo una curva incrociò frontalmente il corteo. Le prime persone erano di solito i familiari del defunto, avrebbe così compreso di chi si trattava. Le osservò con attenzione, ma non le riconobbe. Eppure nel paese conosceva tutti. Volse lo sguardo verso le file più dietro, e neppure lì conosceva nessuno, o meglio, alcuni a prima vista sembravano dei paesani ma poi, guardando meglio, erano solo delle somiglianze. Strano. Possibile che fossero venuti da un altro paese vicino a fare un funerale lì? E di notte, poi? Mah. Forse avevano altre usanze.
Mentre il catafalco era giunto a pochi metri da lei, si era quasi tranquillizzata e se ne stava tornando a letto, allorché notò che le luci che quelle persone portavano con sé non erano candele o lumini, anzi sembrava quasi che la fiamma sgorgasse direttamente dalle loro mani, dal pollice teso. E i loro sguardi… non c’era tristezza o pena, erano occhi vacui, spenti. Ebbe allora un attimo di smarrimento, ma non riuscì neppure a ragionare sull’assurdità di quanto aveva visto che la bara giunse accanto a lei e, contrariamente ad ogni consuetudine o logica, era aperta.
Invece di correre via, come forse a quel punto sarebbe stato sensato, se ne sentì irresistibilmente attratta, non resistette alla stolida curiosità di guardare il cadavere. E allora accadde che fra le cento e più di facce apparentemente sconosciuti osservate sino ad allora, apparve ai suoi occhi un volto ben noto. Il morto nella bara era suo marito. Non c’era dubbio. Lo ricordava bene. Sembrava fosse stato appena composto, e che non fossero passati più di trent’anni.
Fu colta dal panico. Era morto nell’epidemia di tifo petecchiale che aveva decimato il paese, eppure ora era lì, ancora integro sebbene provato dalla malattia, sembrava quasi che dormisse, sembrava che potesse da un istante all’altro aprire gli occhi e parlarle. E infatti fu così. Mentre lei era ancora lì stupefatta a guardarlo, sbarrò di colpo le pupille e si levò a sedere. Il corteo, come ad un comando inconscio, si fermò, smisero persino di biascicare preghiere. I cavalli si arrestarono anch’essi, emettendo fumo bianco dalle froge. Carmela era paralizzata dal terrore. Il marito aprì la bocca per parlare ma invece di emettere dei suoni articolati produsse un lamento intenso e straziante che partì da una nota bassa per arrivare rapidamente ad una tonalità così alta e stridente che la costrinse a tapparsi le orecchie. Tutti i presenti invece rimasero all’inizio impassibili, come se tutto ciò fosse perfettamente normale, poi pian piano iniziarono anche loro ad emettere un lamento, dapprima tenue e poi sempre più forte fino ad essere all’unisono con quello del marito.
Le gambe le cedettero, e si accasciò sulle ginocchia. Il marito dall’interno della bara tese le braccia verso di lei, con le mani come artigli pronti a ghermirla in un abbraccio mortale, continuando a soffiare quel macabro suono. A Carmela quel rantolo non era sconosciuto, era quello terribile che lo sventurato emetteva negli attimi terminali di quell’infernale contagio che l’aveva condotto a morte. E ora come allora lei non poteva fare altro che attendere che finisse.
Per la verità, tanti anni prima lei non si era limitata ad attendere ma alla fine non ne aveva potuto più e quando sembrava fosse ormai prossimo a spirare l’aveva aiutato soffocandolo con un cuscino. E non era stato facile come poteva sembrare, perché sebbene la malattia nel giro di pochi giorni l’avesse completamente consumato, aveva mostrato in quell’occasione una inattesa vitalità. Sembrava morto, se non fosse stato per quel lamento infinito, eppure quando gli aveva calcato sulla faccia il cuscino aveva iniziato a dibattersi, a scalciare, e lei che non era pronta a quella reazione non aveva avuto lucidità di prendere la decisione più semplice, cioè farlo respirare e attendere che la natura facesse il suo corso ma aveva insistito, con tutta la sua forza, calandoglisi addirittura addosso con tutto il suo peso, fino a quando, dopo una strenua lotta, era infine spirato. Lei poi era fuggita via, aveva chiamato altri parenti che, senza sospettare nulla avevano provveduto a comporre la salma, mentre Carmela non aveva neppure partecipato al funerale né aveva voluto più ricordare quel momento, rifiutandosi pure di far dire delle messe in suffragio, che le sembravano una blasfemia, dovendo venire da lei che era stata la sua assassina.
Nel ripercorrere quegli istanti le sovvenne quanto le aveva detto quel giorno la Gatta. E come per magia, alzò gli occhi e a capo di quel corteo di facce - che prima sembravano ignote ma che ora a guardarle meglio… le ricordavano suoi compaesani morti da tanti e tanti anni, sebbene più magri, sofferenti, quasi consunti e iniziavano a dirigersi verso di lei con fare quasi minaccioso - c’era proprio quella di Teresa, che sogghignava e annuiva con forza.
“Aiutami!!”, la implorò Carmela. Ma quella non se ne diede per inteso e continuò a procedere verso di lei insieme a quell’orda di… come definirli? Morti viventi, diremmo ora, zombie? Fatto sta che di certo non avevano più molto di umano. Carmela corse verso casa, entrò in cantina ed afferrò un sacco pieno di farina, quindi uscì di nuovo e lo protese verso Teresa. “Accetta la mia elemosina, te ne prego, e manda via questi… questa gente!”. Mentre pronunciava queste parole, si girò vero il catafalco. Il busto del marito, seduto, emergeva ancora dalla bara e si dimenava goffamente a braccia tese e con la testa penzoloni.
Teresa allora fece un cenno e il gruppo si fermò. Si avvicinò lei sola a Carmela, prese il sacco, la ringraziò e si riunì alla processione che come se nulla fosse stato riprese rapidamente il proprio cammino sparendo dietro alla curva. Dopo qualche secondo non si sentì più niente, né passi, né preghiere e tantomeno lamenti, tanto che si ritrovò a pensare fosse stato solo un incubo.
Ma qualche giorno più tardi ricevette una nuova visita della Gatta, e questa volta non l’accolse con disprezzo ma con rispetto. Le offrì subito l’elemosina, ma quella rispose che era lei a doverle qualcosa. Estrasse dalla tasca del grembiule un telo arrotolato, glielo porse. Era il sacco in cui era contenuta la farina che le aveva donato, riconobbe subito le iniziali ricamate. Non era stato un sogno, non c’erano più dubbi. E quando Teresa disse quel che seguì, ogni titubanza sparì del tutto.
“L’elemosina che chiedo, è vero, serve a me per vivere. Ma loro vogliono che io viva per poter raccontare ai loro cari come stanno, di cosa hanno bisogno. E quando io ho queste esperienze sono così stancanti che per giorni sono distrutta e non posso lavorare e guadagnarmi da vivere diversamente. Io servo a loro e loro servono a me. Tuo marito…” Carmela ebbe un sussulto. “Tuo marito comprese quel che gli facesti, capì la ragione, non volevi commettere un omicidio, fu solo pietà. Non sentirti in colpa, fai pace con te stessa e con la sua memoria. E fagli dire una messa ogni tanto, servono a farli sentire meno soli, dove si trovano”.
“Ma perché volevano aggredirmi?”, chiese Carmela.
“Non volevano aggredirti, volevano semplicemente… toccarti. Hanno una forte nostalgia delle persone, della vita, appena vedono un uomo, una donna, vogliono avvicinarsi, bramano ancora un alito di vitalità. Solo che non riescono più a parlare, li capisco soltanto io e pochi altri come me…”.
“Ma possono vederli tutti?”, la incalzò.
“Non tutti, anzi sono rari quelli che ci riescono. A te non capiterà più, a meno che ci sia una ragione davvero importante. In questo caso c’era, te l’ho spiegato. Erano tutti morti di tifo nelle condizioni di tuo marito, vagano nella notte accompagnandosi a vicenda ma è come se avessero perso la strada, cercano la pace eterna ma ancora non la trovano. Per il fatto che sai, che sappiamo tutti noi del paese, anche se fingiamo di avere dimenticato. Ma i morti lo sanno meglio di noi che il sale sulle ferite non le guarisce, anzi le infiamma ancora di più… E non c’è acqua bastevole a spegnere quel fuoco che brucia da trent’anni”.
Il professore s’interruppe. Disse che l’anziano che gli aveva riportato il racconto tanti anni prima si era fermato a quel punto, come se non avesse avuto il coraggio di continuare, come se si fosse trattato di qualcosa troppo difficile da narrare sebbene a distanza di oltre un secolo. Forse, aveva sospettato, perché anch’essi erano stati aiutati a morire da qualche parente, e il vecchietto non aveva voluto raccontargli tutto perché magari i familiari erano ancora in vita e sembrava come fare la spia o un oltraggio alla memoria.
Mi disse anche un’altra cosa. Che la storia di Teresa e Carmela non era l’unica del genere che si raccontava in paese. Ce n’erano molte altre che avevano ad oggetto messe e processioni di defunti, non così dettagliate come queste, ma che avevano in comune la faticosa ricerca di pace da parte dei morti, inquietante anche il racconto della donna sepolta viva in chiesa, trovata dopo tempo alzata dalla bara, con il lenzuolo arrotolato in testa, far leva col cranio sulla botola che chiudeva la tomba, senza riuscire però ad aprirla. Si trattava, lo so bene, della classica trama delle storie dei fantasmi, ma aggiunse un particolare: erano state frequenti fino all’inizio degli anni ’70 del ‘900, alcuni ancora in vita giuravano di esserne stati testimoni oculari, e poi di colpo erano finite. Si erano come “spente”. Fu questa la parola che usò.
La sera ripensai a quel racconto, e qualcosa non mi tornava. Mi sembrava che mi fosse sfuggito un particolare importante, che non avevo messo bene a fuoco. Mi rituffai nelle mie carte, l’albero genealogico dei miei clienti era ormai pressoché completo. A margine ancora era rimasto un asterisco a ricordami la questione del cimitero “scomparso” nel 1817. Un anno fatale, per la comunità, dal quale erano scaturite conseguenze che avevano permeato addirittura i racconti di fantasia, come quello di Teresa Gatto.
Ma era stata davvero una fantasia? E se era così, non c’era un fondo di verità, come in tutte le storie? Cosa avevano omesso di raccontare al Professore? Perché le anime dei morti di tifo non trovavano pace, secondo il racconto? Era inverosimile che fossero tutti stati oggetto, come diremmo ora, di “eutanasia”, la ragione doveva di sicuro essere un’altra. Ma quale? Poi fra le mille domande che affollavano la mia mente se ne affacciò repentina un’altra, la più inquietante. Dov’erano stati sepolti tutti i morti dell’epidemia se solo alla fine del 1817 il Comune avviò le pratiche del nuovo cimitero e si riprese a seppellire in chiesa? Evidentemente proprio nel “camposanto” di cui non c’era più memoria! Forse iniziavo a capire… Mi immersi di nuovo nella lettura del commentario del 1819, al capitolo in cui si descrivevano particolari caratteristiche del decorso della malattia in alcuni casi…
Poi ripresi il libro con la storia del paese, il nostro terreno ricco di acqua e solcato da diversi fiumi era stato sin dall’epoca preistorica teatro di numerosi insediamenti umani, ve n’erano notevoli testimonianze proprio nella zona del fiume.
Ormai si era fatta notte. Ma non era tempo di dormire, era il momento di capire, altrimenti neppure io avrei mai trovato pace. Andai a casa del Professore, lo trovai a letto ma lo convinsi ad alzarsi. Gli raccontai quanto avevo scoperto, gli prospettai una mia intuizione e lui, stupito, la confermò.
Insieme ci avviammo a piedi per la via delle Logge, ancora la stessa di allora, sebbene asfaltata e costeggiata di numerose abitazioni, io stesso ne possiedo una. Dopo circa un chilometro giungemmo fino alla Cappella ed al nuovo cimitero, ma invece di salire il viottolo che porta all’ingresso, proseguimmo verso sinistra, lungo un sentiero laterale, fino a quando, bianca ed enorme come la chiglia di un transatlantico o la pancia di una balena, si erse di fronte a noi la muraglia enorme della Diga, che sorregge le tonnellate di acqua frutto dell’invaso sul fiume costruito negli anni ’70. Gli scavi per la sua realizzazione erano stati imponenti, e nel corso degli stessi erano stati rinvenuti numerosi reperti dell’epoca neolitica, utensili, armi, selci lavorate, gioielli rudimentali e… ossa, tombe antiche.
Era lì sotto? Mi chiese il professore. Risposi di sì, ne ero convinto. Il primo camposanto era stato creato nel 1806 in quello spiazzo pianeggiante ora coperto di acqua. In quell’area dove nel corso dei millenni l’uomo si era spesso insediato, e dove aveva seppellito i propri defunti. Che fosse stata memoria storica oppure un ancestrale richiamo, quando era stato necessario spostare il cimitero dalla chiesa ad un terreno esterno al paese, si era scelto quel posto. E per i primi anni tutto era andato bene. Fino a quel maledetto 1817. Quando le morti si susseguivano senza sosta e per stanchezza, terrore e paura del contagio non c’era neppure tempo di aspettare le ventiquattr’ore canoniche prima della sepoltura. E allora era capitato che, complici le particolari conseguenze del morbo, che provocava una sorta di morte apparente nel malato che invece conservava ancora un residuo di forza, molti di coloro che erano stati seppelliti alla bell’e meglio sotto pochi centimetri di terra e avvolti nei soli sudari, si erano alzati dalle fosse ed erano stati ritrovati anche ad una certa distanza. Magari addirittura qualche “risveglio” era avvenuto in presenza di qualcuno e allora…
Allora – continuò il professore – la popolazione già provata dagli eventi aveva ritenuto, in preda alla suggestione, che quel campo fosse maledetto, ed aveva ripreso a portare i morti in chiesa. Dove magari si erano comunque risvegliati – vedi la storia della donna – ma ormai l’epidemia era in netto calo alla fine del 1817, e non era più accaduto con quella frequenza terrorizzante. Così il Comune aveva deliberato di costruire il nuovo cimitero in altro posto, e il provvidenziale sogno di una “pia donna” aveva suggerito l’area accanto ai ruderi della vecchia Cappella, all’ombra della protezione benevola della Madonna. Dove, difatti, non era mai più successo niente del genere! Logico, visto che non c’era più il tifo, ma significativo per l’indole superstiziosa dell’epoca.
Del vecchio camposanto nessuno aveva voluto più sapere nulla, capace che vi fosse stato sparso anche del sale, come una damnatio memoriae di epoca romana, e fosse stato vietato addirittura parlarne. Ma nell’inconscio di molti era rimasto il dramma dei propri familiari rimasti sepolti lì, che veniva vissuto come un oltraggio alla loro memoria di anime senza pace. Pensiero auto colpevolizzante che aveva sicuramente fatto scaturire i racconti e le leggende, come quella di Teresa la Gatta.
Poi era stata costruita la Diga, e ormai tutto era al sicuro sotto un mare d’acqua dolce.

Che aveva finalmente spento quella ferita, lavato via il sale. Non se ne sarebbe parlato più. Solo noi sciocchi appassionati di storia e misteri avevamo voluto ripercorrere quell’antica storia. Giurammo di tenerla per noi, e così è stato per tutti questi anni, il professore purtroppo non c’è più e neppure io avevo avuto occasione di ripensarci. Fino a quando, in questa notte inquieta di primo autunno, mentre non riuscivo a prendere sonno per il caldo e la siccità che dura da mesi, che sono esaurite perfino le riserve idriche della Diga, ho sentito dei passi pesanti e dei sussurri lamentosi e strazianti per la via che costeggia la mia abitazione, qui alle Logge...