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venerdì 10 dicembre 2021

Basta che sia pace

Nelle difficoltà ci diciamo di essere forti, di superare le avversità. Agli amici che devono affrontare una prova consigliamo di fare del loro meglio, di lottare. 

Ma, stavo pensando, non sarebbe molto meglio arrendersi? Alzare le mani, ammettere di aver perso. 

Quando il predatore ti rincorre, già lo sai che ti raggiungerà, è più veloce, più forte, puoi solo ritardare con fatica l’inevitabile.

E allora mangiami, se vuoi, ti aspetto qui. Mordimi, solitudine. Sbranami, sfortuna. Divorami, destino. 

No, non fingerò di essere morto, quella sarebbe una strategia.

Neppure mi piegherò come fa il giunco in attesa che finisca la piena. Io voglio arrendermi e basta. Voglio accettare di aver perso prima ancora che l’arbitro fischi, rientrare negli spogliatoi e bere qualcosa di caldo. 

Non voglio conquistare ciò che desidero ma non mi appartiene.

Non voglio riconquistare quello che ho perduto.

Voglio che la guerra finisca, cedere i territori contesi, parlare la lingua del vincitore, accettarne le leggi, la religione. 

Basta che sia pace.

sabato 13 novembre 2021

Il posto delle cose perdute

Cercavo una cosa che avevo perduto. Ovviamente nel posto sbagliato.

Per caso però ho ritrovato delle agende di un po’ di tempo fa, le ho sfogliate. Ho sempre avuto bisogno di appuntare quello che faccio, forse perché, rileggendo, possa illudermi di aver fatto qualcosa.

Nasciamo e per un po’ l’unica data di rilievo è quel giorno. Poi accadono cose. Cose che ci segnano, ed altre che infatti dobbiamo segnarci altrimenti svaniscono.

Il primo bacio. Non ho idea di quando sia stato. E nemmeno la prima volta che ho fatto l’amore. Forse per un po’, i primi tempi, lo sapevo, poi non più. Ricordo, invece, alcuni ultimi baci, e molto bene quelli non dati. Mi pare ne parlasse anche un poeta.  

La data della laurea, il 24 aprile. Ma solo perché era facile, il giorno prima della Liberazione.

Quella del matrimonio era il 21 ma l’ho sempre confusa con l’11 settembre. Chissà perché.

Il compleanno di mia figlia, ma solo perché è il giorno prima del mio. E lei forse il suo allo stesso modo. In pratica siamo cappellai matti, festeggiamo i non-compleanni.

Invece ho nitido il giorno in cui una ragazza che mi piaceva al liceo non volle uscire con me. Il 28 marzo. Forse anche lei, per la stessa ragione mia della laurea. Il giorno della Liberazione. Dal mio corteggiamento.

Ricordare. Riportare al cuore.

Dimenticare, togliere dalla mente.

Forse alcune cose che ci capitano si sistemano da una parte, altre dall’altra.

E io come al solito le cose perdute le cerco nel posto sbagliato.

venerdì 20 agosto 2021

Leggimi tra le righe

Dando per assunto che tutti passiamo dei momenti di profonda tristezza (tranne il mio amico Francesco, che si sorprendeva sempre del mio umore malinconico, e non solo di quello, una volta mi chiese di descrivergli il mal di testa, che lui non aveva mai provato) ognuno ha un suo modo per cercare di superarli. 

Ci concentreremo qui su quegli stati aspecifici, non dettati da un singolo evento (come ad esempio un lutto) ma facenti parte di un mood depressivo ricorrente, spesso vagamente orientati su questioni amorose irrisolte, senso della vita, incapacità di godere del presente, insoddisfazione perenne. 

Il modo più semplice e più gettonato nei consigli è aspettare che passi. 

Solo che da Confucio in poi, e io abito accanto a un fiume, mai sentito che l’attesa di veder passare il cadavere del nemico tra i flutti sia stata premiata, figuriamoci quella di veder magicamente arrivare un sorriso per il solo fatto di aver sfogliato il calendario. Al massimo passa quel pensiero perché surclassato da altri ancora peggio. Alcuni provano a risolvere con la cioccolata, che pare metta buonumore, o bevendo, che dovrebbe far dimenticare. Altri più comodamente si rifugiano negli antidepressivi e buonanotte. Buonanotte si fa per dire, visto che chi attraversa queste fasi riesce davvero di rado a farsi una dormita come si deve. Se comunque si deve aspettare, restare inerti forse sarebbe meglio che essere lasciati liberi di agire, perché è proprio quello il momento in cui fioccano errori commiserevoli come contattare ex dimenticati, perdonare cose imperdonabili pur di essere parlati, corteggiare in maniera delirante e venire bloccati, farsi ridere appresso o spammare il proprio dolore a tutto l’elenco di whatsapp con messaggi patetici al confronto dei quali quelli di buon ferragosto o “che fai per capodanno?” sembrano un tampone negativo. Nello stadio più avanzato io, per esempio, dopo aver sperimentato invano quelli appena descritti, vado a tirare fuori vecchi diari per trovare periodi peggiori del presente, così da dirmi che se l’ho superata allora lo farò anche stavolta. Neanche a dirlo ritrovo gli stessi errori, e riscopro figuracce che avevo dimenticato, oppure amori per cui ero entusiasta mentre ora so come sono finiti e, insomma, non faccio che aggravare la situazione. Così mi rifugio nell’ultimo rimedio possibile, cercare di fare di tutto questo un racconto divertente, o che almeno vorrebbe esserlo, e scaricarci dentro tutte le mie angosce, quei cento piccoli niente che tutti insieme mi hanno di nuovo condotto qui, il silenzio che non mi spiego o la risposta che non volevo dare o avere, l’illusione delusa (io voglio vivere sempre nell’illusione, per favore non datemi mai certezze!), la noia (la noia la noia la noiaaaaa... cantava qualcuno) o semplicemente il tempo che passa e io non sono mai stato capace di leggere tra le rughe.

domenica 16 maggio 2021

Alzati e fai colazione!

Mentre faccio colazione, il suono delle campane mi ricorda che oggi è la festività cattolica dell’Ascensione. 

Il ritorno di Gesù al Padre quaranta giorni dopo la Pasqua. E io mi sono sempre chiesto perché? Non sarebbe stato meglio - una volta miracolosamente risorto - continuare a predicare, a lungo, dimostrando ai suoi nemici che non potevano nulla contro di lui e il messaggio che portava? Invece no. Muore, dopo tre giorni risorge e dopo qualche settimana se ne va definitivamente. Amen.

Lasciandoci con mille dubbi. Ad esempio sul valore dei miracoli come fonte di conversione. Deve bastarci che essi siano accaduti, come una inspiegabile magia, o per farci credere davvero occorre essi siano realmente efficaci? Ecco, su questo non ho letto analisi approfondite. Per esempio, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci o dell’acqua in vino alle nozze. Di sicuro qualcosa di incredibile e meraviglioso, ma sarà stato anche realmente nutriente? Qualcuno si è chiesto se alla sera gli invitati abbiamo cenato? Di solito un pranzo di matrimonio è riuscito quando tornando a casa dal ristorante ci si sente dire: ma mica vuoi mangiare pure stasera? Per esempio io, in genere, ho sempre voluto qualcos’altro, però ero stato a Paestum, non a Cana.

E il miracolo più esaltante, la resurrezione di Lazzaro? Mai nessuno prima aveva vinto la morte. Eppure le scritture non parlano della vita di Lazzaro dopo quell’evento. Sarà stata lunga e felice, ne sarà valsa la pena? O più di una volta si sarà detto, come talvolta capita a noi nei momenti di sconforto, magari fossi morto allora? O lo avranno detto addirittura i parenti che aspettavano di dividersi i suoi beni? Ecco, credo che un attento monitoraggio delle condizioni successive di Lazzaro sarebbe stato necessario, non per niente, giusto per essere precisi.

Intanto, anche se io non prendo caffè, qualcuno ha moltiplicato le tazzine.




sabato 13 marzo 2021

Perdono (un monologo).

“Perdono... Se quel che è fatto è fatto io però chiedo scusa…”

Ah ah ah, chissà come m’è tornata in mente ‘sta canzone? Adesso Tiziano Ferro non lo seguo più, ma quand’ero ragazzina, con le compagne, facevamo pure la coreografia!

(Canticchia ancora)

E poi (sorridendo) se ricordo bene non era nemmeno “perdono”, ma c’era la X, il “per” insomma: ics dono. Come se uno volesse un regalo qualsiasi, un dono x (ancora una risata, che sfuma in malinconia).

Quanti anni sono passati, però. Forse venti, mamma mia. Sembra ieri…

A volte penso che andando avanti si diventa presbiti non solo con gli occhi, ma anche con la mente, coi ricordi. Le cose vicine sfumano, si comprendono a fatica. Mentre quelle lontane le vedi chiare, quasi le potessi toccare. E’ qua, la bambina che faceva il balletto cantando “perdono”, potrei darle la mano (pausa).

E ora sono io, quella bambina. Come una scena inquadrata in soggettiva, vedo le mie gambe sottili che provano i passi, le braccia che disegnano forme nell’aria, sento la mia voce che canticchia la stessa canzone (ora la canta con una voce bambina).

Io perdono con facilità. Mi sembra molto più faticoso tenere il broncio. Mi scappa da ridere. A volte volevo tenere il punto con mia madre, per qualche rimprovero che ritenevo ingiusto. E glielo dicevo, “non ti parlo più!”. Pensavo di punirla, così. Come farà senza di me? Sarà costretta e chiedermi scusa! E la prossima volta ci penserà due volte, a sgridarmi. Solo che poi questa strategia infallibile nei pensieri, si scontrava con la realtà. Mamma sembrava del tutto indifferente alla mia decisione, continuava a fare tranquillamente i fatti suoi, allora io le andavo intorno di proposito per farle notare che muso lungo tenevo!

Mi sedevo al tavolo mentre lei faceva i piatti, incrociavo le braccia e restavo zitta, muta, non respiravo neppure, per renderle insopportabile quel silenzio, l’assenza delle mie brillanti e continue considerazioni.

Solo che bastava che si girasse un secondo, anche casualmente, nella mia direzione, e io mi ripetevo frenetica “nonriderenonriderenonridere” perché già lo sapevo come andava a finire. Diventavo rossa, trattenevo il fiato, iniziavo a essere scossa da sussulti, finché sbottavo in una risata irrefrenabile e correvo ad abbracciarla. E lei scuoteva un po’ la testa, mentre la guardavo da sotto in su, stretta al suo petto, desiderosa di una parola di pace. Allora stringeva un po’ gli occhi allargava le labbra in quel meraviglioso sorriso che ancora oggi se ci penso gli occhi mi si riempiono di lacrime. “E’ passata ‘a paccìa?” diceva ironica, chiedendomi in dialetto se la mia follia si fosse allontanta. E io nascondevo la faccia nel suo seno, timidissima.

Quanto tempo che non ripensavo a quei momenti… Non so perché, associo al ricordo di mia madre il profumo del sapone di marsiglia. Non le tenui fragranze dei suoi profumi, anche se li ricordo tutti. Quello col boccettino dal piccolo tappo amaranto, a cui teneva tanto, non so perché. Non sappiamo nulla dei nostri genitori, a pensarci. Almeno, non direttamente. Una madre e un padre restano sempre una madre e un padre, anche quando, crescendo, non vediamo più intorno a loro quell’aura di infallibilità che fino a una certa età ci porta a pensare non possano mai sbagliare. Poi col passare degli anni capiamo che in realtà sbagliano anche loro, come tutti. Anzi, più degli altri, perché i loro sbagli, o quelli che crediamo tali, si ripercuotono direttamente su di noi. Le proibizioni, le imposizioni. Ma anche quello che ci hanno consentito di fare, quando sbagliando si sono fidati di noi.

Io ho preso il vizio del fumo per colpa di mio padre. Perché non mi vietava mai nulla. Era sicuro di avermi fornito gli insegnamenti sufficienti a distinguere quel che è giusto da quel che è sbagliato; che avrei scelto per il meglio.

Ed è stato lui a non capire che stava sbagliando. Evidentemente era lui a non avere avuto gli insegnamenti sufficienti a capire che un figlio devi indirizzarlo (sorriso amaro). O almeno così avrei fatto io, al posto suo.

Facile parlare, ora, mi direte.

E quando avrei dovuto parlare? Prima che le cose accadessero cosa ne sapevo?

Del senno di poi sono piene le fosse, si dice. Ma esiste, il “senno di prima”? Ne avete mai sentito parlare?

No. Non funziona così. Le stronzate non le puoi evitare. Mentre le vivi, non ti sembrano stronzate, altrimenti non le faresti. O meglio, in certi momenti il sospetto ti viene pure, ma sei convinto che alla fine andrà bene. E’ quella che in diritto si chiama la “colpa cosciente”. Per quella, alla fine, hai uno sconto di pena. Invece il dolo eventuale è l’atteggiamento di chi, nel commettere la medesima stronzata, se lo prefigura benissimo che potrà andare malissimo ma accetta il rischio. Vada come vada.

E quello, non te lo perdona nessuno.

E torniamo da dove avevamo iniziato, al perdono.

A quello che io elargisco con generosità, un po’ per egoismo e un po’ perché ho paura.

Paura di restare da sola.

L’ho perdonato troppe volte, e credo di averlo fatto per questo, in fondo.

Perché ogni volta sembrava l’ultima. E se lo fosse stato davvero? Lo avrei lasciato, restando sola, proprio quando invece potevo finalmente avere un po’ di pace? No, mi dicevo. Non voglio fare come quella barzelletta che mi dissero una volta alle elementari. Del tizio che per uscire di prigione doveva superare cento cancelli. Ma arrivato al novantanovesimo, visto che era stanco, pensò vabbè, torno indietro.

E se li fece tutti a ritroso.

Chissà perché una storiella così scema mi è rimasta tanto impressa.

Questa, e quell’altra. “Un signore entra in un caffè. Splash.”

E ridevo. Ma mica l’avevo capito il gioco di parole. Per me il signore entrava proprio nella tazzina.

Perciò ridevo.

Ridevano anche gli altri. Chissà se lo facevano perché l’avevano capita, o erano anche loro come me.

O piuttosto ridevano di me?

Forse era così. Ma tanto, ormai l’avrete capito, io li avrei perdonati comunque.

A me, però, nessuno mi ha mai perdonato.

Per me ogni cattiveria nei miei confronti non è mai tale. Ci sono mille sfumature.

Come gli eschimesi, che secondo la leggenda, hanno tante parole diverse per definire la neve.

Invece, per chi deve giudicare me, è tutto bianco o nero. Spesso nero.

Nessuno mi ha perdonato quando me ne sono andata.

Le mie ragioni non le ha volute ascoltare nessuno.

E ora sto qui, davanti al mare, a pensare cosa resta del passato.

Osservo questo ammasso di blu e ancora una volta mi perdo nelle sfumature e nei ricordi.

Nelle sinestesie.

Ancora un profumo, quello dell’astuccio nuovo il primo giorno di scuola, quello dei pastelli Giotto, di legno.

Su ognuno di loro era scritto il colore. E il blu ne aveva tante.

Il blu di prussia.

Il blu dei lividi, a cui non voglio pensare più.

Il blu oltremare.

Quel mare che oggi è proprio un olio, un olio blu.

Il blu della cinquecento di mio padre.

(Canta)

“Che cosa resta del passato
Forse una 500 blu
E un giradischi rovinato
Che ormai non va più”