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sabato 2 luglio 2016

Il pulcino Piero


Il tunnel. E’ una metafora troppo facile, ma se la usano in tanti vuol dire che funziona. E per questa storia, dovunque la si osservi, è perfetta. 
C’è una montagna che sembra insormontabile.
L’opera instancabile dell’uomo per realizzare una galleria.
C’è la luce, che sembra si stia finalmente uscendo. 
E il timore che si tratti ancora di un treno in senso contrario.

Piero, si chiama il bambino protagonista del nostro racconto.
Il suo nome è quello di un familiare, come spesso si usa.
Ma in realtà è il nome di un pulcino.
Il papà da piccolo vinse un animaletto al luna park. Poteva chiedere un criceto, ma non voleva credere che la vita è una ruota che non porta da nessuna parte. O un pesciolino rosso, che scambiano una busta e mezzo litro d’acqua sporca per l’immensità dell’oceano iscritta nel loro dna. Invece scelse un pulcino, perché i suoi genitori gli dissero che avrebbe potuto tenerlo senza gabbia. E quello lo ricambiò subito, con un imprintingpotente, di quelli da incubatrice, che mamma gallina non l’hanno mai vista e si affezionano a qualunque cosa. Lo battezzò Piero, per puerile assonanza con il suo classico pigolio, e lo tenne con sé, accarezzandolo, nutrendolo, prendendosene cura notte e giorno per un paio di mesi fino a quando era ormai troppo grande per rimanere nell’appartamento, e allora, non senza lacrime, accettò che fosse affidato al nonno che aveva un pollaio.
Il finale sembrerebbe quasi una barzelletta, con lui che in vacanza in campagna ne mangia senza saperlo la parte migliore, riservatagli fra tutti i commensali quasi per un diritto di prelazione, del quale, se ne fosse stato consapevole, avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma così divertente non fu, quando, per colmo di iniziazione, appena dopo che ebbe consumato il pasto, gli fu rivelato di cosa, anzi di chi si trattasse. La bonaria logica del nonnofigliolo, gli animali son fatti per questo, non ne rintuzzò i violenti conati di vomito, e in seguito il senso di colpa e la diffidenza verso il cibo, che impiegò tempo ad attenuarsi, se pure fu mai del tutto sopita.
Chissà se il padre ripensò a quella lontana storia quando si dovette dare il nome al suo primogenito. Ora dice di no, che Piero è il padre della moglie, e dalle loro parti ancora si usa omaggiare in questo modo uno dei nonni, ma certo che quando ci ripensa, alla luce dei disturbi avuti dal bambino, gli sembra una coincidenza davvero curiosa. Anzi, una maledizione, gli è scappato una volta, fra i denti, absit iniuria verbis, che i figli son sempre benedizione, almeno così ci insegnano a pensare. Altrimenti difficilmente potremmo superare indenni le ansie e le preoccupazioni con le quali incidono il nostro cuore di genitori, specialmente nella società attuale in cui riversiamo su di loro ogni aspettativa, come in uno specchio dalla cui immagine ci aspettiamo sempre di essere perfetti, diventando noi il loro ritratto di Dorian Gray.
Piero cresceva bene, non presentava alcun disturbo particolare, le solite colichette addominali e qualche episodio di reflusso gastricocon un po’ di vomito. A cinque mesi il pediatra consigliò lo svezzamento, e allora mangia tesoro, che mi diventi grande e forte, gnam gnam
Eppure quando la mamma provò a somministrargli le prime pappine, sembrava mandare giù tranquillo i primi cucchiaini e poi, d’un tratto, li rigettava. E così Piero non mangiava, qualunque cibo diverso dal latte arrivasse alla sua boccuccia veniva sempre rifiutato con violenza. 
I mesi passavano veloci, fu sottoposto a numerosi esami e non fu riscontrata alcuna particolare patologia gastrointestinale tale da comportare questa reazione, eppure ormai aveva compiuto quasi cinque anni e si andava avanti a latte e biscotti, si era aggiunto a fatica lo yogurt, ma ogni altro tentativo di immettere cibi solidi non sortiva effetto positivo, e la situazione non era più sostenibile perché gli venivano a mancare troppe sostanze necessarie al suo sviluppo.
Siamo in un piccolo paese del sud, si provarono persino rimedi magici, come scacciare il malocchio, l’invidia che poteva avere preso di mira quel bimbo così grazioso e la sua famiglia.Furono convocate anziane signore depositarie di antiche formule, buone per guarire da ben “centouno” malattie, come recitava una delle filastrocche ripetute a cantilena, accompagnate da sbadigli rituali, lacrimazioni catartiche, e infine da altri tentativi, quasi forzosi, di fargli ingurgitare un cucchiaio di pastina.
Lo sfinito Piero pareva quasi  accettare, con contestuale soddisfatto annuire della guaritrice, avete visto?, sembrava dire allargando un sorriso come un crepaccio su quel viso solcato da profonde secche rughe, prima che venissero inondate dal getto di vomito compresso del bambino.
Ma quei rimedi non potevano avere successo perché fra le centouno malattie catalogate dagli ideatori di quelle nenie apotropaiche non era compresa la disfagia funzionale, ciò di cui realmente soffriva il piccolo.
Non un problema organico, dunque, ma una fobia.
In sostanza - riassunse esemplarmente il padre dopo che la psicologa gli ebbe esposto la diagnosi - ha paura del cibo.
Il vomito, capitato magari per caso o per un reflusso passeggero al momento di provare le prime volte ad ingerire un cibo solido, lo avevaspaventato, gli provocava allarme, temeva di soffocare, ed allora rifiutava gli alimenti diversi da quelli consueti, per lui gli unici affidabili.
E che fai, ad un bimbo così piccolo, come glielo spieghi che la sua paura è irrazionale? Le terapie cognitive sono difficili in età più adulte, figuriamoci a cinque anni. Fu iniziata così una terapia comportamentale. 
Piccoli premi ad ogni progresso. 
Racconti per distrarlo, rilassarlo. 
E allora suo padre si ricordò del pulcino. Non gli narrò tutta la storia, quel finale amaro che aveva provocato per anni in lui reazioni, al momento di assaggiare la carne, simili a quelle che provava ora il bambino. Gli parlò, invece, di come gli procurava il calore necessario, delle carezze, della copertina fatta con uno straccetto e della lampadina da venti watt attaccata con lo scotch alla scatolina di legno in cui lo accudiva. Gli raccontò di come provvedeva a nutrirlo, come la mamma che il pulcino credeva che fosse, delle briciole di pane inzuppate nel vino che Piero raccoglieva nel minuscolo becco e poi mandava giù con uno scatto del collo. 

Guardami, Piero! Il cucchiaino si avvicina alla boccuccia come un treno che deve entrare nella galleria, ciuf ciuf e… aaaaammm!

Papà, te lo giuro che ci provo. Ma è come se dall’altra parte della galleria stesse arrivando un treno ancora più veloce. Ma te lo giuro che ci sto provando, siamo in due a farlo, lo capisco che hai la mia stessa paura, ma leggo anche la fiducia nei tuoi occhi che sono i miei, non lo so che si chiama imprinting quell’amore che provo per te e mamma, io so solo che ti seguirei in capo al mondo, perché tu sei forte, mi proteggi, mi vuoi bene. 
La apro, la boccuccia, papà, faccio come il pulcino Piero
Apro la bocca e chiudo gli occhi. 
E’ una promessa, la manterrò. 
Sarò ciò che vuoi che io sia. 
Perché con te non ho paura, perché mi fido di te, papà. 
Sì, sono il tuo pulcino. Stavolta mangerò. 
Ma mentre parli, accarezzami. Sì, così, sulla testa. Gnam.

La pastina rimane in bocca a lungo, come un viaggiatore in attesa di destinazione. Poi il piccolo prova a deglutire, contrae i muscoli del collo, in quel gesto automatico che invece lui compie con evidente sforzo. 
Gli occhi strizzati, la fronte imperlata di sudore, le labbra si schiudono e il papà pensa che il regionale del cibo abbia dovuto di nuovo dare la precedenza al Frecciarossa del vomito. 
E invece si sente la voce del capotreno.
Buona. Me ne dai ancora, papi?

Oggi Piero ha sei anni e mezzo, aiutato dalla terapia e dimostrando molta forza di volontà ha superato la fase più delicata. Gli è stata utile anche la consigliata frequentazione della mensa scolastica, il desiderio di socializzare, ed è riuscito ad aggiungere diversi alimenti alla sua dieta. A pranzo mangia la pastina, solo con un po’ di difficoltà iniziali. E a merenda la frutta. La mamma gliela schiaccia ancora un pochettino, è vero, ma ormai è un ometto, le mostra i dentini, cosa credi che io non li sappia usare? Io non sono più un pulcino, sono un leone, roarrr
E quel ruggito, che per la verità è più un miagolio, si trasforma in un limpido sorriso, e poi in una risata serena di entrambi.
Sì, forse quella luce in fondo al tunnel non era un treno.
Era proprio l’uscita.