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sabato 16 febbraio 2019

Quando mi sento bene


Quando mi sento bene?
Non parlo di quelle cose che soddisfano i bisogni primari, e che in qualche modo piacciono (dovrebbero piacere) a tutti gli essere umani, tipo mangiare quando hai fame, andare in bagno quando occorre, fare l’amore se capita.
E neppure alle situazioni straordinarie, (tendenzialmente) irripetibili e di certo non quotidiane: un premio, la laurea, la nascita di un figlio.
Mi riferisco a quei frammenti della giornata (se sei fortunato), o meglio della vita, in cui ti dici, sì, in fondo ne vale la pena. Non credo di sentirmi bene spesso, anzi quasi mai.
Ho, più che altro, dei rifugi. Dove mi nascondo in attesa che passi.
La musica lo è sempre stato. Ascoltata e, meglio ancora, suonata.
Scrivere, questo funziona abbastanza. Più di parlare. Inventarsi un posto dove vorresti essere, un tempo, sceglierti la persona, e andare di fantasia. Se poi lo fai mentre senti musica, meglio ancora.
E’ che poi i racconti finiscono, come pure le canzoni, spesso la tregua non dura più di un’ora.
Ad alcuni piace il sole, ad altri la pioggia, o la nebbia. Non saprei esprimermi.
Di solito a me accade che se c’è il sole non so dove andare, e se mi va di uscire diluvia.
Un altro rifugio sarebbe camminare. Ma da solo mi sento un cretino, e in compagnia non è lo stesso.
Mi piace farlo dove non mi conosce nessuno. A Roma, una mattina che dovevo aspettare a lungo una persona, dalle parti di Piazza Bologna, arrivai così lontano che non sapevo tornare all’albergo. Però mi sentivo bene, all’andata.
Mi sento bene quando sono utile a qualcuno, ma è un atteggiamento egoista, perché poi odio l’irriconoscenza e dunque mi rendo conto che lo faccio principalmente perché in qualche modo ne ha bisogno la mia autostima.
Mi viene da pensare che, in fondo, degli altri non me ne importi nulla. O non più di quanto a loro importi di me.
Mi sento bene quando ho la coscienza a posto. Non quando ho fatto la scelta giusta, perché io non so mai se la scelta che faccio lo è. Anzi, tendo a pensare sia sempre sbagliata, eppure la faccio lo stesso. Importante è scegliere, al più presto, che sia un jeans, la direzione ad un bivio, una compagna. Salvo poi ritrovarsi da solo, in una destinazione che non era la tua, e col pantalone che non ti si abbottona.
Mi sento bene quando le cose funzionano. Per esempio ieri sera, ridendo alle mie stesse battute mentre provavamo un testo teatrale. Sto bene anche quando le cose si rompono e poi riesco a ripararle. Ma non mi succede spesso, da piccolo non mi hanno lasciato neppure sostituire una lampadina, figuratevi se sono capace di sistemare le cose. Sono più bravo a correggerle. Non perché ne sappia di più, semplicemente perché ho il dono (la maledizione) di riconoscere al volo gli errori. Non a caso uno dei romanzi che adoro si intitola Le correzioni. Ma chi corregge sempre si rende antipatico, si sa. Le persone, anche se a parole siamo tutti modesti, vogliono credere di essere infallibili.
E si sono fatte le dieci. L’ora è passata. E alla radio tutte canzoni di merda.
Il tempo sembra bello, quasi quasi sfato le mie credenze ed esco.
Vado a comprare un jeans.




venerdì 8 febbraio 2019

Sembra che dorme


Non erano passate neppure due ore, quando riaprì gli occhi.
Quelli delle pompe funebre lo avevano appena sistemato nella bara ed erano affaccendati ad appendere le insegne sacre, a posizionare i candelabri, per cui nessuno badava a lui.
Capì di essere nella camera da letto, riconobbe il lampadario sul soffitto. Il bordo della cassa gli impediva però la visuale completa della stanza. Provò a sollevarsi ma il collo gli si era irrigidito, e non ci riuscì. Voci familiari provenivano dalle sue spalle, probabilmente dalla cucina. Qualcuno piangeva.
Sentì dei passi avvicinarsi e, istintivamente, riabbassò le palpebre.
“Sembra che dorme”. Una voce di donna che non riconobbe. Poi una carezza sulla guancia. Un tocco lieve, caldo. La mano rimase lì per qualche secondo, eppure sufficiente per farlo riassopire.
Quando riaprì gli occhi la seconda volta non sentì voci definite, solo un brusio indistinto, come di una radio.
La stanza doveva essere piena di persone.
Pensò, come d’uso, fossero tutte sedute attorno al feretro. Più vicini i familiari, più in là coloro che passavano a fare visita e si fermavano qualche minuto per una preghiera di circostanza.
Neanche stavolta si accorsero che era sveglio. Provò a parlare; niente. Le mascelle erano serrate, la lingua immobile. Non riuscì neppure ad emettere suoni, lo sterno era irrigidito, il diaframma bloccato.
Lo sforzo gli costò molta fatica. Tornò a dormire.
Al risveglio non sentiva più voci, solo uno stridìo.
Per soffitto stavolta aveva un cielo buio. Il lampadario doveva essere spento. Poi il rumore, quello delle corde nella carrucola, cessò.
Lo avevano calato nella fossa.
Gli sembrò di sentir piovere, sul tetto.
Era un suono che lo rilassava da sempre.
La terra che cadeva sul coperchio della bara lo accompagnò ancora una volta nell’oblio.
Questa volta, sognò.
Di essere morto e di non essersene accorto.
La mattina dopo, si alzò come sempre alle sette, fece colazione con un cornetto senza latte e uova, si vestì e andò in ufficio, dove rimase per dieci ore.
La sera, tornato a casa, mangiò un brodino, guardò una partita senza tifare per nessuna delle due squadre e si mise a letto.
Non erano passate neppure due ore, quando riaprì gli occhi.