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lunedì 16 dicembre 2013

Regali di Natale

Quali sono state le invenzioni che ci hanno cambiato di più la vita?
Non parlo delle automobili, dell'elettricità, della televisione, insomma di quelle cose che abbiamo trovato già bell'e fatte. Intendo dire quelle che sono state realizzate dopo la nostra venuta al mondo, quelle che la vita l'hanno cambiata pure a noi. Sicuramente il telefono cellulare, che io me le ricordo bene le cabine, i gettoni che finivano nel bel mezzo della frase, e, d'altra parte, il poter essere da qualche parte senza che nessuno ti potesse rompere le scatole. E poi internet. Che con wikipedia ha fatto sparire le enciclopedie polverose che prima appesantivano le nostre mensole e le nostre ricerche scolastiche. E il navigatore.
Ma ce ne sarebbero ancora molte altre, perché la tecnologia avanza a passi da gigante, come leggevo stamattina, su Donna Moderna, mentre facevo la cacca, nella pagina dei regali di Natale hi-tech, piena di strumenti avveniristici, che magari neppure pensavo fossero stati già inventati.
Peccato che poi il tempo di lettura sia finito - quello è variabile - prima che potessi completare l'osservazione di tutti quegli spettacolari congegni.
Una invenzione di magari nessuna utilità, ma che mi piacerebbe davvero molto, sarebbe un chip impiantato in una lente a contatto, sul nervo ottico, o addirittura nell'ippocampo, collegato ad una fotocamera miniaturizzata, che permettesse di fotografare i ricordi.
Funziona così: tu ripensi a qualcosa del tuo passato, ad un'immagine a te cara e ormai irrimediabilmente trascorsa, clicchi con la palpebra, e questa ti si ferma e si scarica tramite Bluetooth dal dispositivo che ti è stato impiantato. Delle vere e proprie foto-ricordo!
Potresti rivedere episodi indimenticabili ma che non sono mai stati realmente immortalati in presa diretta (quando tu eri ragazzo il cellulare, l'hai detto, non c'era) il meraviglioso volto di quella ragazza sulla quale volevi fare colpo e perciò le dicevi che se aveste avuto almeno cinquanta cose in comune eravate fatti l'uno per l'altra, e dovevate mettervi per forza insieme. E così continuavi a chiedere "ti piacerebbe vedere le Piramidi?" "Sì", "anche a me", e così via, fino a cinquanta, fino a quando era inevitabile mettersi insieme, e glielo leggevi negli occhi, grandi e ingenui oltre ogni dire, ma eravamo ragazzi.
Quello che non potresti fotografare sarebbe la tua faccia di bronzo, in quei momenti.
Là dovresti andare sul menu "condivisione" e scaricarla dalle foto-ricordo di quella ragazza di allora. Chissà come mi vide. Credo ne uscirebbero foto molto, molto mosse, perché doveva essere davvero miope a mettersi con me.
Ma erano altri tempi, più di vent'anni fa.
Quando in tasca non avevo neppure una lira, al massimo un gettone telefonico.
Ma tanti di quei sogni da riempirci tutte le pagine della vecchia Wikipedia sulla mensola.
Mentre ora rimangono solo ricordi.
E sciocchi stratagemmi per pensarci.

venerdì 6 dicembre 2013

Una pietra sopra

Puoi vivere per anni un'esistenza piatta, fatta di pantofole calde e buone letture e piccoli riti quotidiani, il caffè, quel programma che ti intriga, la telefonata ai parenti, il placido tran tran di un lavoro che non ti arricchisce ma ti consente di toglierti qualche piccolo sfizio di quelli che piacciono a te, una mappa del Cilento del '600 comprata su ebay, la raccolta integrale delle commedie di Eduardo, un orologio da tasca così squisitamente demodé, che non indosserai mai, ma hai comprato per il puro piacere di averlo, che ti ricorda le serate da tuo nonno, tanti anni fa, quando ti insegnava le ore su quella cipolla che estraeva dal panciotto.
E non ti manca niente, e ogni altra cosa sarebbe superflua, un inciampo, invece tu hai costruito il tuo nido prima del passaggio a livello, che rimanga perennemente chiuso non è un tuo problema, anzi, a lungo andare, ti sei anche dimenticato che ti eri fermato, e perché l'avevi fatto.
Poi, un giorno, per caso, senti un rumore di fondo. Prima pensi al frigorifero, a quello sciocco cassone da 44 decibel che ti avevano assicurato silenziosissimo ma invece carica come un trombone.
Poi il rumore aumenta, sempre più intenso, e allora ti desti dal torpore, e ti accorgi che il treno, quello che aspettavi quando avevi vent'anni, e del quale, alla fine, ti eri scordato, sta finalmente passando.
Ha il suono della voce di un amico che non vedevi da tempo.
Il trillo che ti tenta con il numero sul display di quella donna che hai così tanto desiderato.
La mail dell'editore a cui hai inviato il tuo romanzo, magari è stato accettato.
E l'esito delle analisi di quello che sembrava solo uno stupido malanno.
Allora rimani lì, inebetito, incerto, come il turista all'incrocio.
Posa da antico romano, iconografica, il libro in una mano, la coperta di Linus sulla spalla come una toga. E ripensi, in un attimo, a tutti i vizi che non hai avuto, le occasioni che non hai colto, le casse del tesoro che non hai aperto, ed anzi hai seppellito di nuovo, cancellando anche le tracce che potessero consentirti di ritrovarle.
E all'amico hai detto che sì, ci sarà l'occasione per mangiare una pizza, e per ricordare i vecchi tempi, lo richiamerai tu; quello che, invece, non farai con quella donna, che le rette parallele sono destinate a non incontrarsi, al limite a salutarsi da lontano con la manina, o a mandarsi i biglietti di auguri.
Perché lei è la tua eroina, ma le emozioni danno dipendenza, lo sai. Non ne avresti mai abbastanza.
E poi, dopo l'euforia, c'è matematicamente la botta, il down.
Una chiamata persa, magari un'altra ancora, poi stupita, chissà, offesa, la smetterà.
E la mail sicuro era solo una pubblicità, meglio cancellarla, chissà, poteva contenere un virus.
Le analisi, si vedrà, un passo alla volta, che le malattie hai voglia ad aggredirle, sono un muro di gomma, usano la tecnica dello judo, sfruttano la tua forza e te la ritorcono contro, invece devi fare finta di niente, fregarle con la finta vulnerabilità, usare l'arte della guerra di Sun-Tzu.
Torna alla tua coperta, lasciati di nuovo avvolgere dal torpore, e magari in sogno confonderai il suono del treno con un gatto che ti fa le fusa, rron rron.
Ancora una volta, come hai sempre fatto, ci metti una pietra sopra.



giovedì 21 novembre 2013

Getsemani a Battipaglia

Di certe cose talvolta mi faccio un vanto. Di non avere vizi. Ad esempio. O di non tradire.
Però, la verità, sono i vizi che stanno lontani da me, non il contrario.
O le circostanze che non collimano. O il coraggio che manca.
Per esempio, confesso che molte volte, tornando da Salerno in auto, passando sulla litoranea, un pensiero di fermarmi e caricare qualche prostituta l'ho fatto, eccome.
Però, e se qualcuno riconosce la mia auto, o se mi viene un infarto, o se la prostituta non ha il resto ... insomma, tante valide ragioni mi frenano, e l'essere tendenzialmente morale è solo una di queste.
Più che altro è questione di occasione, quella propizia, che non capita. Così, passo sempre diritto, talvolta saluto con la manina, ciao, qualcuna risponde, col dito medio.
Oggi, però, si era presentata un'occasione magnifica, che non era colpa mia.
Infatti la macchina ha iniziato a perdere colpi proprio sulla litoranea e sono stato costretto a fermarmi in una piazzola infestata da queste simpatiche operatrici del piacere. E peraltro pioveva, ti sembrava anche brutto che tu avevi tutto quello spazio al coperto, caldo, e loro, con quella divisa d'ordinanza in pelle umana, insomma.
E infatti, si è avvicinata una, pensando mi fossi fermato per lei.
Sciao, belo. Dove andiamo?
Carina, la verità.
Da nessuna parte, la macchina s'è rotta, perde colpi, forse il filtro ...
Come se parlassi col mio meccanico.
Si è chinata provocante al finestrino, la divisa faceva il suo bell'effetto. Anzi due.
Scinquanta e faccio tutto io.
Bè, ho pensato, non è che io sia così maschilista, una mano te la darei pure.
Ma in realtà non ho detto niente, le guardavo le tette ma solo perché mi dispiaceva che strusciando si stava bagnando sul vetro. Peraltro veniva fuori pulito che era un piacere, gomma migliore di quella del tergicristalli.
Forse il mio silenzio prolungato e il mio sguardo le ha fatto capire che ero io quello che perde colpi.
Si è allontanata storcendo le labbra.
Come il meccanico quando vede le condizioni della mia auto.
Ho finto di parlare al cellulare, ho armeggiato nel cruscotto, ho pregato qualche divinità pagana dimenticata da tempo e perciò libera da impegni.
E chissà come, la macchina è ripartita. A trenta all'ora. L'ho trovato un prezzo più conveniente.
Per potersi gloriare di saper resistere alle tentazioni, bisogna pure che ci siano veramente.

lunedì 4 novembre 2013

No problem (solver)

Il progressivo aumento del benessere, unito ad una sempre più elevata componente di stress derivante dalle complesse incombenze quotidiane, ha reso necessario, secondo molti, l'ausilio di una nuova figura professionale, il problem solver.

Ma non sarà controproducente? Facciamo un esempio.
Se il neonato piange e tu non lo senti neppure perché il problem solver ha organizzato un efficiente babysitteraggio, quel silenzio prolungato ti consente di pensare pure di notte a tutto ciò che non va, e ti prende l'insonnia (e allora del neonato te ne potevi occupare pure tu).
Poi, quelle nottate lunghissime, sempre tranquille, portano pure ad un calo del desiderio, donna, hai voglia a indossare biancheria intima sofisticata, adottare movenze sinuose, quello, l'uomo, ne ha abbastanza, troppa facile disponibilità ammazza il desiderio, e magari capita che proprio allora si addormenta. 
Invece, se ci si rivolge ad un problem creator, le cose andranno sicuramente meglio.
Senza adeguato servizio di babysitter (o quantomeno con una baby sitter di merda, che dorme come una pietra), hai voglia a pensare ai problemi, se non appena metti in fila due pecore senti i peggio strilli, e quei rari momenti di silenzio crolli come in coma.
Poi, il problem creator fornisce anche biberon con latte quagliato, che fanno venire magnifiche colichette che aiutano tanto, col calo del desiderio. Infatti, dopo qualche mese che 'sta criatura piange come un ossesso a qualsiasi ora del giorno e della notte, e tu e la tua compagna siete come zombi di vista e di fatto, non fate sesso dal concepimento, vedrete che altro che biancheria intima e vibratori, se capita per caso che fra una colica e l'altra c'è qualche istante di requie, appena vi sfiorate pure col pigiama di pile e i mutandoni scatta una copula immediata e violenta che nemmeno un adolescente arrapato in gita scolastica ad Amsterdam.

sabato 26 ottobre 2013

Non è importante il viaggio ma il percorso

Certe volte è come un'urgenza. 
Ti sembra che scrivere sia necessario, in quel momento, in quel preciso istante in cui ti trovi e, anzi, non solo ti ci trovi, ne sei prigioniero di quell'attimo in cui l'unica via di fuga, l'unica soluzione è scrivere.
E' un messaggio in bottiglia, è l'ultima lettera del condannato, il testamento per diseredare quando hai solo un alito di vita, la dritta via, quando l'avevi smarrita.
Allora sbrighi di corsa tutte le faccende, lo fai anche piuttosto male, ma hai una scusa buona, un'ottima scusa, le telefonate possono aspettare, puoi fare a meno anche di starnutire, anzi, è meglio, più cose dentro ti tieni e più ne tiri fuori, poi si tratta solo di metterle in fila, un tasto dopo l'altro, una parola dopo l'altra, una frase dopo l'altra, affinché abbiano almeno un minimo senso compiuto, perché tu dopo possa leggerle e dire, ecco, era proprio quel che volevo dire.
Perché tante volte, è la verità, non sai affatto cosa diavolo volevi dire.
Più facile pensare che la ragione stava, piuttosto, in quella telefonata che non volevi fare, in quelle faccende da sbrigare, in quell'improvvida voglia di starnutire, che tu hai provato ad esorcizzare.
Era quella, dunque, l'urgenza? Sfuggire ad un presente che non riesci a sopportare.
Non lo so, potrei uscirmene con frasi fatte, spiegare tutto col bisogno ancestrale dell'uomo, unico animale che inventa delle storie, così, per il solo gusto di farlo, senza una valida ragione.
Come a dire che "non è importante il viaggio, ma il percorso".
Sciocca frase che ho letto, una volta, e mi è pure sembrata profonda, e solo dopo un bel po' ho realizzato che viaggio e percorso sono la stessa cosa.

venerdì 18 ottobre 2013

Controfiguracce

I.
 
Un film davvero forte?
Alcuni pensano all'iperrealismo (che sconfina un po' nel porno): attori che fanno sesso sul serio quando la scena prevede un rapporto a letto; attori che non usano controfigure; attori che interpretano dei pugili e se le danno di santa ragione.
Io invece sarei incuriosito da un film nel quale se, ad esempio, si sparano, lo fanno sul serio.
E' già successo, nel Corvo, e Brandon Lee ci ha lasciato la pelle, meglio di no.
Come ripiego, ma non troppo, mi piacciono le produzioni che non badano a spese.
Quelle che fanno esplodere camion, treni, aerei, solo per vedere l'effetto che fa, anche se con la storia non è necessariamente funzionale.
Ho sempre sofferto quando facevano precipitare le automobili, quelle belle, o quelle d'epoca (penso al Sorpasso) giù da una scogliera: lì non puoi recitare, la macchina la sfasci e basta.
Il massimo sarebbe, allora, quando la scena prevede che l'auto finisca nel burrone, che ci finiscano anche gli attori che si trovano nell'abitacolo.
Pensate a Thelma e Louise, in quello splendido volo nel canyon, nel finale del film.
Un vero seguace del metodo Stanislavski avrebbe preteso di rimanere a bordo.
Ma Geena Davis e Susan Sarandon non ne vollero sapere, minando la forza di quell'epilogo.
E così a volare nel burrone furono soltanto due sciocche controfigure, alle quali avevano promesso che la macchina sarebbe arrivata dall'altra parte intatta, e loro sane e salve.
 
Avvertenza: questo post l'ha scritto la mia controfigura.
 
II.
 
Parliamo di professioni.
Esiste una normativa che consente, a chi ha un reddito inferiore ad un minimo di legge, di potersi munire di un avvocato per difendersi in giudizio a spese dello Stato.
E' una legge che si è sempre prestata ad abusi, è capitato che addirittura adepti della criminalità organizzata (che, manco a dirlo, lavorano "in nero") avessero dei redditi dichiarati bassissimi o inesistenti ed hanno usufruito di questa agevolazione.
Io intendo proporre una modifica sostanziale.
Per accedere a questa agevolazione, non dovrà essere la parte ad avere un reddito basso, ma l'avvocato. Quest'ultimo, proprio perché indigente, potrà attrarre più clienti con la prospettiva di difenderli gratis, o meglio, a spese dello Stato. Un ammortizzatore sociale non da poco, per una categoria, come la mia, in disgrazia.
La riflessione nasce da racconti scambiatici oggi in udienza fra colleghi, ognuno dei quali ha diversi aneddoti di concorrenza sleale e penosa in tempi di crisi. Espongo solo il caso di quell'avvocato che, a differenza di quanto si fa normalmente, ha affermato di essere sempre in cerca di cause perse.
Al nostro stupore, ha fatto presente che quando difendi una causa vincente, la parte si aspetta subito un esito positivo, e le inevitabili lungaggini (che non dipendono dall'avvocato, ma dal sistema, ma il cliente non lo comprende), le vive come un'incapacità del difensore; questo, assommato alla consapevolezza di avere ragione, ne aumenta la frustrazione, e il più delle volte, scontento, non paga l'avvocato, o addirittura lo cambia, pur se incolpevole.
Invece, il cliente che sa di avere torto, non ha pretese, accetta di buon grado, anzi con gioia le lungaggini (che l'avvocato può spacciare per "merito" suo), perché gli procrastinano sine die la sconfitta, e inoltre, quando perde sa bene che non ci si poteva aspettare più di tanto ed è ben disposto verso il legale che ne ha condiviso l'agonia, e lo paga con maggiore accettazione.
Ecco dove siamo arrivati, in un paese che ha più avvocati che clienti.
 
III.
Oggi pomeriggio, dopo pranzo, pensavo a quali sono le cose che amo di più fare nella vita.
Ho stilato una classifica, vi dico i primi dieci.
1) Stare seduto sul balcone, in primavera ed autunno, nelle giornate di sole piacevole ed inatteso, a leggere un buon libro;
2) Grattarmi le orecchie col cotton-fioc
3) Fare sesso con chi dico io quando dico io
4) Girare in macchina al tramonto senza una meta e cantare appresso al cd
5) Biscotti
6) Che le persone ridano parecchio alle mie battute, specie se donne (le persone)
7) Champions league, vittorie in rimonta delle squadre italiane
8) I commenti ai miei post quando dicono che fanno ridere o sono intelligenti
9) Fumetti
10) Suonare canzoni acustiche e fare i cori.
 
Queste sono le prime dieci. La ragione per cui grattarsi le orecchie non è al primo posto è perché la classifica  l'ho scritta stando seduto sul balcone, in primavera ed autunno, nelle giornate di sole piacevole ed inatteso, a leggere un buon libro (nella specie, per la precisione, "Il momento è delicato" di Ammaniti; La ragione per la quale il sesso (con chi dico io e quando dico io) è al terzo sta nelle parentesi. La ragione per cui i biscotti sono al 5° è perché ho avuto il virus intestinale. O viceversa.
La ragione dei commenti all'8°, è perché scrivo post  come questi e dunque neppure puoi attenderti chissà che e allora è meglio volare bassi.


domenica 13 ottobre 2013

La casa delle zanzare

La prima notte che provammo a dormirci, la trascorremmo con una pantofola in mano, cecchini di zanzare. In quell'appartamento non viveva nessuno da anni, ma era ancora arredato, ricolmo di oggetti polverosi, libri, vestiti, scatoli e scatoloni dei proprietari che, trasferitisi altrove, avevano lasciato lì la loro roba, ricettacolo di acari e, appunto, di zanzare da troppo tempo a dieta.
Ne contammo ben cinquantasette prima di finire stremati, arresi, addormentati, in balìa delle altre, che videro premiata la loro pertinacia.
Ed infatti al mattino dopo ci vergognammo di andare all'università, tanto eravamo martoriati in viso e su mani e braccia da decine e decine di punture.
Ho ripensato ieri alla "casa delle zanzare", chiacchierando con un'amica di Salerno e dei tempi andati.
Ci vivemmo per un anno, io e il mio amico Francesco, nel lontano 1992.
Ma non furono solo zanzare, anche ricordi divertenti, alcuni indimenticabili.
Le spaghettate notturne, il nascondino, gli amici e le chitarre, l'immancabile cornetto all'alba da Chez Lucien, sotto casa.
Ma la cosa più importante, fu quel che la casa mi insegnò, con i suoi tesori nascosti.
Trascorsi gran parte di quel tempo in compagnia di annate intere di vecchi Linus, la famosa rivista a fumetti diretta dal grande Oreste del Buono; conobbi il lessico famigliare di Natalia Ginzburg e l'ironia bonaria di P.G. Woodehouse, i gialli matematici di Agata Christie e le passioni sfrenate di Charles Bukowski...
Poi l'anno passò, la casa, in via Parmenide a Salerno, era mal collegata con l'università, e allora ci trasferimmo più vicini, a Lancusi, e la storia continuò ancora per un po' con altre case, persone, tesori, pacate vittorie e scintillanti sconfitte.
Ieri mi è tornata in mente, dopo più di vent'anni, la casa delle zanzare.
In una vita ogni giorno, ahinoi, più lunga, gli anni trascorsi, un tempo difronte a noi, grandi e grossi, in lontananza ormai appaiono briciole. Ma siccome in queste, tutto sommato, c'era un bel po' del mio sangue, non volevo ancora dimenticarmene.

domenica 6 ottobre 2013

PPP

No, Pierpaolo, non è mancanza di rispetto.
Non è neppure vergogna.
Non ho alcun timore a confessare di avere amato i tuoi "ragazzi di vita".
Non voglio aderire alle ipocrite censure che accompagnarono Accattone.
Vorrei anzi passeggiare orgoglioso in Piazza di Spagna abbracciato alla divina Magnani, indimenticabile Mamma Roma, regina puttana delle borgate.
Non c'è bisogno di nascondere le lettere di Gramsci, i tempi, dicono, sono cambiati.
E l'omofobia, quella, andrebbe presa a calci come amavi fare tu col pallone, capitano di mille squadre di ragazzi perduti, macchinisti, comparse, barboni, ultimi degli ultimi.
Non è mancanza di rispetto, dunque, ma certo, non è neppure un omaggio il fatto che io stia leggendo questo saggio su Pasolini mentre faccio la cacca.
E' che mi trovo bene, più concentrato, e in più ottimizzo il tempo.
Del resto, dolce Pierpaolo, sei in buona compagnia, tranquillo.
Solo nell'ultima settimana ci sono passati Verdone, i fratelli Marx e Donna Moderna.

domenica 29 settembre 2013

Try

Ricordo poche cose che mi sono riuscite facilmente, che mi riescono facili.
Ci sono quelli che con un minimo impegno raggiungono risultati.
Io nella vita, nei rapporti sociali, nella professione, nei sentimenti, fatico, arranco, mi impegno, e se talvolta ho raggiunto un obiettivo minimo è stato solo a prezzo di notevoli sforzi.
Arrivato sfinito al traguardo, quando già avevano sbaraccato il tavolino delle premiazioni, gli altri atleti tutti da tempo sotto la doccia.
Una corsa ad handicap, senza che però io fossi il favorito in partenza.
Un handicap affibbiato a chi già aveva l'handicap.
Riflessione amara scioccamente acuita in questi giorni di ristrutturazione domestica dalle numerose apparecchiature nuove delle quali, tramite manuali scritti in magiaro (o in italiano tradotto dal magiaro) dovrei provare a capire daccapo come funzionano la nuova TV, la stufa, il termoconvettore, la lavastoviglie, il frigorifero no frost ecc.
E così stanotte, mi rigiravo come al solito nel letto (in realtà non mi rigiravo davvero, ho fatto un fioretto - alias disturbo ossessivo-compulsivo - secondo cui posso dormire solo sul lato destro, ed ormai ho le piaghe da decubito) e ripensavo ...
... Alle compagne di scuola carine che stavi ore a guardarle e loro guardavano un altro, e mentre tu ti impegnavi ad essere diligente, servizievole (zerbino, diciamo), a passargli i compiti, ad accompagnarle, loro ti mollavano e se la facevano con quello che fumava, quello con la moto, quello drogato, quello ignorante, quello che puzzava, quello che ti rubava i panini (quel tipo che piaceva un po' anche a te, diciamolo, soprattutto perché il galbanino che ti metteva mamma nella rosetta faceva schifo) ... 
... Ai tuoi primi anni di professione, ai colleghi di lavoro figli di colleghi di lavoro figli di colleghi di lavoro già con la strada spianata, amici degli amici giusti, parenti dei parenti del politico del momento, belli simpatici attraenti con sorrisi a trentadue denti, con sfilze di clienti, mentre tu neppure gli incidenti ... 
... Ai rapporti sociali, ai club giusti ai quali non hai voluto mai appartenere perché come potevi fidarti di essere membro di una compagine che chiedeva proprio a te di esserne membro? ...
... e a tutte quelle volte che non sei fuggito, che hai continuato invano a lottare, fino a quando hai letto quella frase di Homer Simpson, che dice più o meno "hai provato e provato ma ancora non ce l'hai fatta, la morale è: smetti di lottare", e da allora hai capito che è inutile l'attacco frontale, che è meglio fare buon viso a cattivo gioco, non avere più paura di farsi fotografare ma fare sempre smorfie e corna, ridere alle proprie stesse battute e continuare imperterrito a farne, smettere di mangiare sale per sentire il vero gusto della carne, scrivere l'ultima frase anche se non c'entra niente, solo perché era bella e faceva rima.

All'atto pratico, anche con gli elettrodomestici, farò come ho sempre fatto per ogni cosa.
Se non funziona, piuttosto che provare a risolvere, stacco la spina.
Poi dopo un po' riattacco, magari le cose si aggiustano da sole.
Qualche volta è successo.

Poi mi sono pure venute in mente un paio di cose che mi sono sempre riuscite facili.
Contare i punti della briscola. 
E parlare con te.
Senza sapere chi sei, o sapendolo troppo bene.


sabato 14 settembre 2013

Aroma di Zucchero dalle porte socchiuse

Si riaccende il dibattito sulla riapertura delle case chiuse, che mi vede assolutamente favorevole, per diversi ordini di ragioni. Siccome di certo la mia opinione sarà tenuta in ampia considerazione, è doveroso esprimerla qui.
Complice la lettura in corso de "il Petalo Cremisi e il bianco" di Michel Faber, sarei assolutamente interessato alla compagnia di una prostituta come Sugar, amante della letteratura e di ogni perdizione, e tutta la magia che potrebbe avvilupparci in un sofisticato bordello vittoriano, difficilmente potrebbe esprimersi sui sedili posteriori di una Panda sul raccordo anulare.
E poi sarebbe un piacevole svago presentarsi alla ragazza di turno, vestito da generale:
"Signorina, quanto chiede per la mia compagnia?"
"Cinquanta euro".
"Mi sembra un ottimo prezzo! Compagnia a-avanti!!".
Tutto molto più sofisticato e sicuro di un incontro occasionale, magari partito dall'aver lasciato il proprio numero e una frase sconcia nella toilette di un autogrill.
Che poi, di questi tempi, lasciare numeri in giro non è mai consigliabile, non sai mai potrebbe chiamarti il Papa!
E poi, sarebbe un ritorno alla mia infanzia.
A quando vi era fiducia nel prossimo, a quando si viveva davvero in società, non come adesso che trascorriamo la massima parte del tempo nelle nostre confortevoli prigioni.
Ricordo con rimpianto quando percorrevo il corso del mio piccolo paese a qualsiasi ora del giorno e della sera e tutte le porte delle abitazioni erano aperte, dall'uscio salutavi i vicini, gli amici, i familiari, venivi invitato ad entrare e condividere il desco, le incombenze liete e quelle più caritatevoli.
Ora, invece, anche a mezzogiorno, tutte le porte sono sprangate, nessuno si fida più di nessuno, non si ha voglia più di incontrarsi, di scambiare una parola, la luce blu del televisore filtra dalle tende accostate, gli schermi dei computer, dei tablet, degli smartphone hanno sostituito la sana compagnia della conversazione.
Se dovessi scegliere, ccco le case chiuse che davvero vorrei vedere riaprirsi.
E con la mia Sugar non ci adageremo sulle soffici coltri di Silver Street, ma ci accontenteremo di discutere del prossimo romanzo di Giovanni Laurito, sdraiati sul sedile posteriore della mia Panda, vestiti soltanto delle stelle che talvolta illuminano anche il Raccordo Anulare. 

mercoledì 11 settembre 2013

L'ultimo post dove avrei pensato di incontrarti


"Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo". 
Da questa arguta riflessione posta sotto forma di domanda al pontefice, il laico Eugenio Scalfari ha sollevato una questione che riguarda non solo Dio, ma tutti noi.
Esisteremo fin quando qualcuno conserverà memoria di noi, di quello che siamo stati, di ciò che abbiamo lasciato in eredità.
Mi è capitato tempo fa di curare il vasto archivio epistolare di una famiglia nobile.
Si trattava di migliaia di lettere ormai abbandonate all'incuria, diverse casse che contenevano scambi di corrispondenza intercorsi nell'arco di oltre tre secoli.
Ho ricostruito vite destinate all'oblio, affetti quotidiani dispersi fra le pieghe del tempo, storie di personaggi che avevano dominato la loro epoca e dei quali neppure i loro eredi avevano alcuna memoria.
Parafrasando Scalfari, sono loro gli dei che il mio pensiero ha richiamato dall'oblio, o piuttosto sono io (l'uomo) il Dio loro (ri)creatore?
Papa Francesco ha risposto in questo modo alla riflessione/provocazione di Scalfari:
"mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Dio  -  risponde Bergoglio - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell'uomo... non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell'uomo sulla terra, l'uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con lui".
Io, che non so se dirmi laico o credente, che ho paura dell'oblio ma non faccio nulla di buono per essere ricordato, posso solo continuare a scrivere di me e degli altri, fino alla fine del (mio) mondo.

martedì 3 settembre 2013

Basilicata coast quel che coast


Il Parco nazionale delle Murge, che comprende il Materano e si estende nelle Puglie.

Cosa sono le Murge? Una specie protetta di mosche particolarmente aggressive, che è severamente vietato uccidere, per cui sono impedite le disinfestazioni, gli insetticidi e pure gli zampironi.
Ti massacrano dovunque, a tavola, per strada, di notte, ma tu non puoi dire nulla.

Bisogna accettarle, come le vacche sacre dell'India.

Il navigatore della mia auto deve avere impostati parametri particolari.
Non la velocità, le strade migliori, la distanza.
I campi di grano.
Invece di indicarmi l'autostrada, mi conduce lungo interminabili distese coltivate a cereali.
Dove non incontri mai nessuno, auto o persone.
Anche se non mancano le tracce umane.
Lungo un rettilineo di almeno quindici chilometri in mezzo al nulla, ad un certo punto, disegnato sulla carreggiata, il rettangolo bianco di un posto auto. Uno solo. 
In corrispondenza di niente, non un'abitazione, una strada laterale, un capanno.
Sorgono mille domande. Chi l'ha tracciato, a chi e a cosa serva, quel posto auto in mezzo al nulla assoluto, lungo una strada larga e infinita, percorsa da nessuno.
E, soprattutto, che fare se non sia mai lo trovavi occupato?



Altre stranezze ai margini dell'immenso vuoto.

La casa così architettonicamente strampalata che dal ridere i muratori non sono riusciti a finirla.

Le fotografie e i mazzi di fiori lungo la strada, testimonianza di incidenti purtroppo mortali.

Però in punti di perfetto rettilineo, con ai margini pianure.


I sassi di Matera.
Una precisazione, perché ho sentito molti fare confusione. 
Pensano si tratti di pietre, di rocce. Tutt'altro.
I sassi di Matera sono i cuscini dell'albergo dove ho soggiornato.


Castel del Monte. Ore 13.00
Sì, però, prima di visitarlo, mangiamo qualcosa!
Il mio amico propone di cercare su internet una trattoria ben recensita.
Io, più concreto e affamato, nel frattempo chiedo nel parcheggio dove si possa pranzare.
Prima che arrivi connessione dell'i-phone siamo già nel parcheggio dell'agriturismo consigliatoci lì nei pressi. Il proprietario magnifica le pietanze, ma alla fine la cosa migliore sarà la toilette.
Memo. Mai scegliere dove mangiare su consiglio di una parcheggiatrice.
Per di più magra come 'nu spruoccolo.

Altamura.
Nel centro di quella cittadina, ad un semaforo affollato di vetture nell'ora di punta, incontriamo una celebrità locale. L'anziana donna famosa per essere ancora viva.
Attraversa la strada in un modo che ricorda il passo del gambero, ma anche la mossa del cavallo degli scacchi. Impassibile, fra frenate, strombazzate e improperi, la gentile signora guadagna miracolosamente indenne l'altro marciapiede. 
Odore di violette si spande nell'aria.

Carlo Levi.
Percorro infine la Basentana dalla Basilicata in direzione Salerno.
Strada sgombra, duecento chilometri in poco più di un'ora e mezza.
Poi arrivo ad Eboli, file interminabili fino a casa.
Altre due ore per fare appena cinquanta chilometri.
E hai voglia a lamentarti, non puoi farci niente, chiunque tu sia.
Carlo Levi ci fece un romanzo, su questa ineluttabilità del traffico.
Pure Cristo era stato costretto a fermarsi ad Eboli.

giovedì 29 agosto 2013

Io, l'altro

Leggo oggi sul Corriere che un italiano su due ha lo smartphone.
Io sono quell'altro.
Le mie dita nervose sono incompatibili con un touch screen.
E poi non ho alcuna voglia di essere perennemente connesso.
Anzi.

In generale, nelle statistiche, io sono sempre quell'altro.
Sono un campione irrilevante.
Già il fatto di definirmi campione, stona.
Io sono quell'altro, il portatore d'acqua.

Il portatore e soprattutto il bevitore, dopo la colica renale del 27 luglio.
Con la contraddizione che io che non so nuotare e mi spavento anche nella vasca da bagno, da un mese mi diverto ad annegare quotidianamente i miei organi interni.
Così stamattina, per salvarli, ho mangiato delle ciambelle, ahahahahah, forte 'sto Glaurito!
Comunque la vicenda è servita a farmi (verbo giusto) conoscere la morfina.
Non male. La senti entrarti in vena come un guanto caldo che ti avvolge.
Avvolge tutto, tranne il dolore, ma avvolge.
Dunque, anche lati positivi.
Non certo quello sinistro, quello col calcolo.
Al limite l'altro.

Un uomo su due tradisce la moglie.
Certo se devi fare un'orgia ed equilibrismo, tanto vale rimanere fedele.
Forte anche questa, eh? Bravo Glaurito, oggi sei una sagoma.
E comunque, anche in fatto di tradimenti, io sono l'altro.
Il problema è che anche mia moglie ha un altro.
Unico caso in cui l'altro non sono io.

Colonna sonora di tutto ciò, U. Tozzi, gli altri siamo noi.
Io dalla mia ho solo la statura, potrei dire gli alti siamo noi.
Anche perché altezza è mezza bellezza.
Figurati se qualcosa mi riusciva per intero.

Quante sciocchezze che sto scrivendo, dovrei avere il coraggio di cancellarle.
Ma sono come un maiale, di me non butto mai via niente.

Quasi quasi la smetto qua e vado a comprarmi uno smartphone.
Per il touchscreen? Me lo farò toccare da qualcun altro.
L'ho detto che sono come un maiale.

Altri quattro sorsi d'acqua. Pipì. Via.
Ricordatevi di me.
Di quello che scriveva cose dolci come caramelle?
No, io sono quell'altro.





mercoledì 21 agosto 2013

Le parole sono importanti

In questi giorni ha compiuto sessant'anni Nanni Moretti, il mio regista preferito.
No, forse in realtà è come attore che lo preferisco.
O meglio, come sceneggiatore, perché quel che apprezzo di più sono le cose che dice, che fa dire a Michele Apicella, il suo alter ego in molti film.
Le parole sono importanti è una lezione che tutti dovremmo tenere a mente.
Perché qui si parla troppo spesso a vanvera.
Si inizia un post senza sapere dove andare a parare.
Incontri un caro amico che non vedevi da anni, e dici solo sciocchezze sui capelli e il tempo.
Ti invitano a un matrimonio, e sul biglietto non riesci a scrivere altro che augurissimi.
Poi, tra parentesi, ci vai a quel matrimonio, e se volevi raccontarlo, il nome del post avrebbe potuto essere Guantanamo wedding, otto ore di tortura a 150 euro, gli sposi che arrivano alle 16 (tu sei lì dalle 13.30 pensando - sperando di avere fatto tardi), il tavolo con sconosciuti amanti della Falanghina del Cilento e nemici della conversazione sensata, che poi la conversazione sarebbe stata comunque impedita dalla cantante chiattona neomelodica imbustata in un vestito tre taglie più piccolo che non sai se gli acuti li lanciava per la canzone o per il dolore, le pietanze talmente banali che il cuoco si era vergognato di dare loro il nome giusto (il tripudio del dio poseidone=cozze; il corteo di biancaneve=mozzarella; i soffici cuscini del gusto=ravioli stantii, e così via), e camerieri che ti urtavano, fotografi che ti riprendevano a futura memoria come in un grande fratello ogni volta che provavi a fatica a ingoiare un boccone vincendo la comprensibile ritrosia ...
Ma torniamo a noi, alle parole.
A quei film che hanno contribuito alla mia formazione, a quell'impegnato disincanto che costituisce l'ossimoro da cui non riesco a liberarmi, la mia ossessione, quel voler dare a tutti i costi un senso alla vita e poi non impegnarsi mai a fondo, essendo sostanzialmente indifferente il risultato, piuttosto il percorso.
Al dubbio amletico del non sapere se sia meglio esserci o non esserci.
Hai ragione, Nanni, le parole sono importanti.
E' che ogni volta non ricordo quali.





martedì 6 agosto 2013

Gli ultimi istanti

Noi umani siamo fatti così. Conosciamo il nostro destino comune, eppure, quando la fine si approssima, ci sorprendiamo stia per accadere anche a noi. Siamo individualisti, ci crediamo eletti, pensiamo che il nostro mondo ovattato ci proteggerà per sempre, e invece quel giorno, il giorno, purtroppo, arriva per tutti, e non risparmia nessuno.
Ed è arrivato anche per me, ormai, devo rassegnarmi.

Come in quella canzone di Guccini che ho ascoltato spesso, “L’ultima volta”, provo ad assaporare con intensità gli ultimi istanti, sebbene sia ormai quasi incosciente.
Sento le voci familiari sempre più lontane, avverto la loro preoccupazione crescente, la loro ansia, forse nemmeno loro, sebbene ugualmente preparati, se l’aspettavano così presto. Ma ormai non c’è più nulla da fare, salvo sopportare la cosa con rassegnazione.

C’è chi affronta questi momenti con fiducia.
I credenti. Quelli che immaginano una vita anche dopo.
Io non so cosa pensare. Il tempo è passato e un’opinione non me la sono fatta ancora e, a questo punto, inutile arrovellarmi troppo, sono già alla fine del tunnel, non mi resta molto e poi saprò se c’è luce. O un buio assoluto e desolante.

Che poi il problema non è il buio.
Perché se te ne accorgi, vuol dire che esisti.
E il buio ti protegge. Non fa distinzioni.
Protegge i cacciatori e le prede.
Il buio mi è sempre piaciuto, mi tiene compagnia.
Se in fondo al percorso che oggi ho intrapreso sarò ancora nell’oscurità, rimarrò accovacciato come sono ora, con gli occhi chiusi, e mi lascerò coccolare.

Il problema è il nulla.
Un buio in cui rimanga fuori tutto ciò che ho amato.
Mamma che mi cantava la ninna nanna, i baci teneri di mia sorella Lilith. E le mani forti e calde di mio padre, le sue passioni che ha voluto con ogni forza trasmettermi, pur nella mia condizione. La musica, prima di tutto, ma anche la passione per le storie.
Ascoltare la sua voce narrare mi ha fatto conoscere con la fantasia cose che diversamente non avrei potuto neppure immaginare.
Addio genitori come vi ho conosciuti. Addio, dolce Lilith.

Non mi sentono, ottenebrati dalla loro sofferenza per me, l’estremo paradosso. Sento mia madre vibrare, spasimare, stingermi, quasi provare a trattenermi qui, come se fosse possibile, come se il cammino non fosse segnato, come se non fosse stato chiaro a tutti già da tempo quel che sarebbe accaduto. Troppo tardi, ora, piangere.

Gli ultimi istanti. In tanti hanno provato a narrarli, ma sono state sempre storie, raccontate da altri. Nessuno ha potuto lasciarci una cronaca completa, perché nessuno è mai tornato qui.
Ci sto provando anch’io, ma sarà giocoforza una storia incompiuta, perché la parola fine non potrò essere io a metterla, io già non ci sarò più, e toccherà ad altri testimoniare, tutto questo per me resterà nell’oblio.

I singhiozzi laceranti di mamma mi accecano, mi scuotono, non immaginavo ne avrebbe sofferto così tanto, è un dolore che mi sconcerta ma, in fondo, mi conforta: a dispetto di quel che dicono i proverbi, non sono solo, in questo momento difficile.
E così ho la presunzione di fare un po’ di compagnia anche a voi, perché pure ne avrete bisogno, un giorno o l’altro, non lo dico per essere menagramo, lo sapete. Chi un giorno leggerà queste parole, non sorrida, non le scansi, non pensi “non toccherà a me”, ricordi Hemingway (quanti racconti mi ha letto il caro padre!), la campana suonerà anche per lui, suonerà per tutti.
Oggi sta suonando per me.

Il momento è giunto, il dolore infinito sta per finire. Madre, non piangere più, ti prego, altrimenti farai piangere anche me e finora ho resistito, non farmi riempire gli occhi di lacrime, voglio vedere con chiarezza cosa c’è in fondo al tunnel.

Luce.
Alla fine era luce …





I coniugi Woodehouse e la sorellina Lilith sono lieti di annunciare la nascita del loro bambino, avvenuta oggi. Il piccolo sta bene, non piange, è molto curioso.

domenica 28 luglio 2013

Il passerotto e la farfalla

“Carringia”, lo chiamavano gli amici, eppure il suo fisico non era affatto quello del quasi omonimo campione brasiliano, Manoel Francisco Dos Santos, detto Garrincha, il passerotto.
Il nostro Carringia era invece un ragazzone imponente di un metro e ottanta, ma pure lui, quando scattava sulla fascia destra, era agile e imprendibile come un farfalla, così i compagni lo avevano onorato – sebbene in una versione un po’ dialettale - dello stesso soprannome del più grande dribblatore della storia.
Solo che il suo campo di calcio non era lo stadio del Botafogo, ma lo spiazzo sterrato dietro al cimitero, l’unico posto dove, al paese, negli anni ’60 ci fosse lo spazio per giocare una partita. Le porte erano pali verticali di castagno di altezza diversa, senza neppure una traversa, le delimitazioni del campo da un lato la strada e dall’altro il torrente, e come spalti la scarpata sottostante al muro del cimitero, ricoperta di cespugli di ginestre e rovi. Ma nonostante ciò ogni pomeriggio decine e decine di persone si affollavano per seguire le sfide memorabili fra i vari rioni, fonti di rivalità accesissima, e quasi sempre ad avere la meglio era il Piano di Sopra, la squadra nella quale militava Giorgio Corvacci, “Carringia”, appunto, che faceva impazzire i difensori avversari e segnava caterve di gol.
Giorgio crebbe col mito del calcio, di una realizzazione che passasse attraverso il suo innegabile talento. Ma erano anni difficili, e lavoro al sud non ce n’era, così a diciassette anni, insieme a molti altri, dovette emigrare in Lombardia. Poco male, pensò, lì poteva esserci qualche osservatore di una grande squadra che gli avrebbe consentito di cogliere quell’occasione che attendeva da sempre.
Di giorno lavorava alla catena di montaggio, poi, appena smontato il turno, partecipava ad interminabili partite sul campo adiacente il caseggiato nel quale condivideva l’alloggio con diversi suoi compaesani. Finalmente, alla soglia dei diciotto anni, anche grazie all’interessamento di un dirigente della fabbrica che partecipava a quelle sfide del dopolavoro, fu chiamato per un provino dal Como, squadra che allora militava in serie C.
Il provino andò così così. Un po’ di tecnica innata c’era, del resto c’era voluto un gran talento a  dribblare per anni gli avversari al paese senza mai finire nel torrente, ma il ragazzo era completamente digiuno di tattica, non faceva squadra, era un anarchico, in più di testa non era un genio, ed ormai a quell’età in entrambi i campi non c’era da migliorare troppo, investire su di lui non era conveniente.
Gli venne comunque offerta la possibilità di aggregarsi agli allenamenti della squadra Primavera, più che altro per non dire di no a chi l’aveva raccomandato, ed anche perché sulle prime non ebbero cuore di dargli un responso negativo, soprattutto quando lo videro, lui così grande e grosso, tremare come una foglia in attesa di sapere com’era andato.
Passarono così alcune settimane nelle quali si impegnò come un forsennato, levatacce all’alba per correre lungo l’Adda a fare fiato, poi dieci ore in fabbrica e quindi all’allenamento dove arrivava già esausto ma sorretto da quel grande entusiasmo che non lo abbandonava mai. Perciò fu una vera crudeltà quel che gli combinarono.
L’allenatore a un certo punto doveva pur dirglielo che  l’avventura era finita, che il calcio professionistico non faceva per lui, che faceva meglio ad impegnarsi al lavoro, magari ad iscriversi ad una scuola serale per prendersi finalmente quella licenza media che aveva tentato invano al paese. Ci provò, il buon uomo, ma ogni volta che provava ad aprire bocca gli prendeva un groppo in gola, perché Giorgio si metteva sull’attenti, con un sorriso a trentadue denti – per modo di dire, che l’igiene dentale non era mai stata il suo forte, e c’erano un sacco di assi divelte nel suo steccato – e si aspettava chissà quale comunicazione, magari di essere schierato in prima squadra all’esordio in campionato. E così finiva che il mister rimandava, te lo dirò domani, e Giorgio aveva modo di trascorrere l’ennesima notte in cui poter sognare a buon diritto il nome di Carringia in prima sulla Gazzetta, un contratto a sei zeri, donne e motori a piacimento e poi al mattino vantarsi con gli altri sfigati come lui che avevano lasciato il paese e sbarcavano il lunario in quelle squallide e fredde case di ringhiera avvolte dalla nebbia a mille chilometri di distanza dal paese d’origine.
Gli amici in realtà l’avevano capito bene come sarebbe andata, ma invece di cercare di smontare con delicatezza quei castelli in aria, ci presero gusto a farlo precipitare, che fa sempre bene all’anima avere qualcuno ancora più a terra di te, magari meglio se è uno che un po’ di talento, nonostante tutto, il Signore gliel’ha dato, anche se non è sufficiente per volare alto come un’aquila ma solo come un passerotto.
Uno di loro che faceva le pulizie in una tipografia, si prese la briga di architettare una burla. Con la complicità del compositore di bozze – ché lui l’italiano lo masticava appena - realizzò una copia della Gazzetta tale e quale all’originale con l’unica differenza di una pagina interna in cui si parlava del talento di un giovane meridionale emigrato che, durante un allenamento col Como, era stato notato nientedimeno che da osservatori dell’Inter che avevano proposto al Presidente Moratti di ingaggiarlo subito per sostituire il brasiliano Jair sulla destra. Il titolo inventato dell’articolo, con un gioco di parole in realtà non così benaugurante, era “Corvacci volano su San Siro”, ma il povero Giorgio non ne colse minimamente la più o meno involontaria accezione negativa, e scoppiò in lacrime di gioia quando fecero in modo di recapitargli la copia tarocca del quotidiano sportivo, seguita a stretto giro da una convocazione, altrettanto fasulla, presso la sede dell’Internazionale, a Milano, per la stipula del contratto.
Che dire sui preparativi, sulle telefonate a casa a genitori contadini che non capivano nulla, né di calcio, né delle parole emozionate, concitate e arruffate di Giorgio, inframmezzate da scatti di ultimi gettoni, cadute e faticose riprese della linea, mi vedrete in televisione, andate alla Casa del popolo – ché loro la tv mica ce l’avevano – e allora no, aspettate, il tempo di andare a Milano poi ve la compro io – ma quelli non avevano neppure l’elettricità in casa, prima c’era da fare l’impianto – e dunque meno male che poi i gettoni finirono una volta per tutte, e non c’era altro tempo si doveva correre, il pullman per Milano passava alle 5, si voleva prendere il giorno libero in fabbrica ma quelli niente che dice che c’era una consegna da fare e lui allora ma sì, andaà a dà via el chiul voi e la fabbrica, polentoni, se vediamm’ a Sanziro, li congedò, mescolando dialetti e improbabile futuro.
L’arrivo alla Stazione centrale più o meno una scena di “Totò  Peppino e la malafemmena”, con lui che indossava i panni della Cresima, gli amici che sapevano della beffa ma in fondo gli erano anche grati di stare vivendo quell’avventura, perché lo avevano visto giocare, nello spiazzo dietro il Cimitero, e sapevano che quando scendeva sulla fascia con le sue finte non ce n’era per nessuno e in un certo senso si erano convinti che quella lettera di convocazione, sebbene scritta da loro stessi, poteva essere vera, pur sgrammaticata com’era, tanto nessuno se n’era accorto, né loro che l’avevano scritta fra le risate, né Giorgio che l’aveva letta fra le lacrime.
Ovviamente, alla sede dell’Inter, trovata dopo varie traversie, nessuno li conosceva né attendeva, non furono neppure fatti entrare, sporchi e sudati com’erano, fermati alla guardiola da un tipo alto ed elegante che più che un portinaio sembrava Giuliano Sarti, il portiere della Grande Inter di Herrera, la squadra che continuò a vincere di tutto anche senza l’aiuto di Carringia.
Alla fine in lui si fece strada la consapevolezza di essere stato preso per il culo alla grandissima, eppure la sua reazione non fu la presa di coscienza che il pallone poteva continuare ad essere un hobby, ma per sbarcare il lunario doveva rompersi la schiena come tutti quelli della sua generazione e della sua terra, e così farsi una famiglia, vivere una vita dignitosa, giocare ancora partite ogni tanto, insegnare ai propri figli quella finta che lo rendeva immarcabile.
Invece abbandonò completamente il pallone. Per un po’ lo ripresero in fabbrica, ma non durò, cambiò numerosi lavori, eppure neanche col passare del tempo riuscì a superare quella tremenda delusione. Così a poco a poco cadde in una brutta depressione, e all’età di trent’anni, che ne dimostrava già venti di più, senza una donna e senza un obiettivo, tornò al paese e lì si arrangiò a sopravvivere, nei momenti buoni, con qualche giornata nei campi a poche lire o solo per un pasto caldo, mentre quando l’oscurità era così forte da non fargli vedere neppure la via di casa allora passava le intere giornate nei bar a spendersi a birra la piccola pensione della madre, lamentando il suo amaro destino a gente che, ancora una volta, lo ascoltava qualche minuto solo per consolarsi che c’era chi stava peggio e poi, indifferente, lo abbandonava lì, con cento lire buttate sul bancone per lavarsi la coscienza e fargli fare un altro bicchiere da un quarto, e a ridere del suo consunto giornale porno sotto il braccio, che certe volte glielo dicevano, se vuoi fare lo sporcaccione, almeno non farti notare, fai come fanno gli altri, nascondi la rivista dentro un quotidiano.

Carringia – che il soprannome nonostante tutto gli è rimasto – quella rivista la porta ancora sotto il braccio, ma non per mancanza di discrezione, tutto il contrario, perché i sogni non glieli estirpi del tutto neppure a un vecchio alcolizzato di settant’anni, quanti ne ha ora.
Certe sere se ne va verso il cimitero – che la gente pensa vada a pregare o addirittura che parli coi morti, quel pazzoide – sale a fatica la scarpata sottostante al muro di cinta, si accovaccia dietro ad un cespuglio di ginestra, nello stesso posto dove tanti anni fa c’erano gli spalti di quel campo improvvisato, tira fuori il porno, si mette comodo e, con studiata lentezza lo apre alla pagina centrale, dove c’è la modella del mese, la più provocante.
Ma a lui le tette della pin up non interessano affatto, o meglio, non in quel momento e in quel posto. E’ ben altro che vuole guardare, di cui vuole ancora una volta godere. Sotto al poster, ben nascosta agli sguardi ed alle prese in giro, conserva la pagina della Gazzetta del 13 agosto 1966, del giorno in cui il presidente Angelo Moratti aveva preso la sacrosanta decisione di ingaggiare nell’Inter quel giovane campione.

E da quell’antica tribuna ora coperta di rovi, se hai occhi buoni e soprattutto cuore e voglia di sognare, pure a distanza di quasi cinquant’anni lo puoi ancora veder volare sulla fascia destra, lungo il torrente, a seminare avversari come birilli, fra gli applausi dei tifosi, agile e imprendibile come una farfalla.

giovedì 18 luglio 2013

Cose belle

Mia figlia l'altra notte aveva paura di addormentarsi.
Le propongo di pensare a cose belle.
E' così che mi diceva mia madre quando ero io ad avere paura.
"Sì, papà, ma quali sono le cose belle, me ne suggerisci qualcuna?"

Le cose belle.
Ognuno ne ha di proprie, per addormentarsi.

Una bella ragazza, un incontro mai avvenuto, che nel sonno puoi far avverare.
Una spiaggia al tramonto, leggere ascoltando il mare.
Il ritorno di un amico partito tanto tempo prima.
Un mondo divertente in cui tutti parlano in rima.
Fiumi di gelato, colline di caramelle.
Gattini soffici e morbide ciambelle.

E periodi in cui per riuscire a riposare sognavo di gettarmi dal balcone.
L'unica via per figurarmi un po' di quiete, l'estrema ribellione.
O, ancora, essere il Sindaco, ma no, che dico, Dio
usare il mio potere per giungere all'oblio.

Le cose belle, figlia mia ...
Fammi posto, ci facciamo compagnia.
Clic.







venerdì 12 luglio 2013

Oggi non si scrive nulla, domani sì

E' questo il destino di un paese in crisi.
Partorire uomini in crisi. Economica, sentimentale, di identità.
E allora ci si barcamena, ci si adatta, ci si industria.
Se prima percorrevi i viali in cerca di una prostituta, ora li percorri in cerca di un'auto che si fermi e che ti carichi.
Se prima l'amore era un'optional, ora ti accontenti del modello base.
Se prima eri Nessuno, atteggiandoti ad un novello scaltro Ulisse, ora non sei nessuno e basta.
E quando leggi la stantia battuta "oggi non si fa credito, domani sì", sei addirittura portato a crederci, e ti segni l'appuntamento per la mattina successiva.
Per una nuova illusione, per una nuova delusione.


martedì 11 giugno 2013

America America

Questo è il mio destino. In America mi chiamano Italiano, qui in Italia Americano.
(Antonio Margariti, America America, ed. Galzerano)
 
 
E di colpo mi accorsi che il mio paese non era più mio.
Ricordo ancora il mio stupore quando, dall'Uruguay, rientrò Antonio re Zaccheo.
Che, mi disse mio padre, era emigrato all'inizio degli anni '50, e fino alla metà dei '90 non era più tornato al paese. Mi domandavo come doveva sembrargli, a lui che che come tanti altri, era scappato decenni prima dal tardo medioevo cilentano per cercare fortuna nelle americhe. E che la fortuna non gli aveva arriso, tanto che per oltre quarant'anni non si era potuto neppure permettere l'acquisto del biglietto per un viaggio nella sua terra d'origine, e solo ora che era ormai anziano e malato, i parenti rimasti qui avevano fatto una colletta per rivederlo.
Provavo ad immaginare il paese degli anni '50, per come me l'avevano raccontato i miei genitori, i miei nonni. Un piccolo borgo di case rurali, abbarbicato intorno al castello ed alla chiesa, ancora privo di luce elettrica e acqua corrente nella maggior parte delle case, con le fogne che scorrevano a cielo aperto lungo la via principale, con la scuola elementare ospitata in case private, con il municipio itinerante, con l'unica bettola dove si poteva bere vino e acquistare pochi generi di conforto.
Le donne con ancora indosso il costume tradizionale, trasportare sulla testa le bombole piene d'acqua potabile presa all'unica fontana nella piazza. Gli animali, maiali, galline, conigli, a condividere le abitazioni con i proprietari. Le strade ricoperte di sterco. E le porte aperte, d'estate e d'inverno.
Antonio re Zaccheo, appena tornato, non era certamente arrivato nell'Eldorado, ma non restava traccia evidente, quarant'anni più tardi, di quell'arretratezza economica e morale. Le macchine di buona cilindrata al posto degli asini, le case con i confort moderni al posto dei tugurii in cui una stanza veniva condivisa da decine di persone, in quel Cilento che io, pur non avendolo vissuto, ho sempre immaginato simile alla descrizione della Lucania da parte di Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli. Antonio lo conobbi giocando a carte nel bar, usava ancora quel dialetto stretto che molti qui avevano già difficoltà a comprendere, inframmezzato da qualche fonema similispanico. Mi disse che molti dall'America latina avevano sempre accantonato l'idea di tornare, perché pensavano il paese fosse ancora quello che ricordavano e dal quale erano fuggiti, ma la realtà, mi confidò, era che si vergognavano di dimostrare che quella fuga non aveva dato buoni frutti, che chi era rimasto stava molto meglio di loro, che lì si erano semplicemente arrabbattati in mille mestieri, senza mettere da parte un soldo, riuscendo solo, con difficoltà a sopravvivere. Lo sentii più volte dire che, però, ormai, non si sentiva più a casa qui, non conosceva quasi nessuno, salvo i pochi coetanei ancora vivi, e del paese come lo ricordava non era rimasto più nulla. Dopo qualche tempo i parenti fecero una nuova colletta e lo rispedirono in Uruguay, dove morì alcuni anni più tardi, sapemmo per caso.
 
Ho pensato ad Antonio ieri sera, quando per caso mi sono imbattuto su Facebook - su Facebook! - nelle fotografie di una festa che si è svolta nella piazza del mio paese. Che dista cento metri da casa mia, e della quale non sapevo nulla.
Non conoscevo i volti della maggior parte dei ragazzi, non sapevo cosa si festeggiasse (ho saputo, poi, la promozione della locale squadra di calcio), e non mi ero accorto ancora che quei ragazzi non ero più io, che le feste non le organizzavo più io, che i giorni e le notti del mio paese non erano più miei, che il mio paese non è più mio.
Faceva fresco, e sono uscito per strada, inquieto.
I miei amici non ci sono più davanti al bar dove giocavamo a carte, sostituiti da altri che inquadro soltanto per le somiglianze con i loro padri e madri; nei vicoli dove giocavamo con le biglie fra le buche del selciato, c'è asfalto uniforme. Il pallone si gioca solo sul campo sportivo e non nel cortile della scuola, dove passavamo le nostre giornate, mentre ora c'è un parcheggio. E sotto l'arco, dove fermavamo le ragazze che uscivano dalla chiesa, non c'è più la sala giochi e il juke box con le canzoni dei Marillion che avevo fatto mettere io, non ci sono le panche dove sedevamo a prendere il fresco, a mangiare il gelato, a scambiarci sorrisi e baci e progetti buoni solo a fare mattino.
I giovani mi salutano, mi rispettano perchè sanno chi sono, cosa ho fatto, a chi appartengo, ma non sono più uno di loro. Il tempo è passato, e senza rendermene conto, parafrasando Antonio Margariti nell'immortale America America, sono diventato uno straniero nel mio paese.

mercoledì 5 giugno 2013

Tempi duri

Ho finalmente recuperato l'album dei Tempi Duri, per chi non lo sapesse una band che aveva come cantante Cristiano De Andrè, e che faceva delle canzoni inedite che suonavano come pseudo-cover dei Dire Straits (da lì il nome della band, che, appunto, ne era una libera traduzione in italiano).
Niente, solo per dire che negli anni 80 e fino alla prima metà dei 90, le belle canzoni, quelle che ti emozionavano davvero, si sprecavano, anche una piccola band come questa era capace di sfornare dei gioiellini, una per tutte Gabbia, poi contenuta anche nel primo album da solista di Cristiano.
Mentre ora sfido chiunque a citarmi una canzone davvero, davvero bella da dieci anni a questa parte. Ce ne sono alcune che emergono dal piattume generale, ma solo perché intorno c'è quel piattume. In senso assoluto, non sento capolavori in giro. Non sarà che, davvero, tutte le combinazioni possibili per le sette note si sono davvero esaurite? Infatti, quando sento le varie Emma, Chiara, Alessandra, Loredana ecc., non riesco a distinguerle, mi sembra sempre lo stesso brano. Idem per Mengoni, Carta, Scanu, diverse declinazioni per lo stesso fenotipo, voce da castrato settecentesco, e voglia dell'ascoltatore di autocastrarsi pur di non sentirli più.

venerdì 31 maggio 2013

La cognizione del dolore

Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto.
Non diversamente dal famoso incipit de "Le Metamorfosi", e in una medesima situazione di "kafka", ieri mattino, al risveglio da sogni inquieti, Giovanni Laurito trovò nel suo letto un enorme insetto.
Non essendo un entomologo, il Laurito ha delle difficoltà ad individuarne il nome scientifico corretto, diciamo che in senso aulico potremmo definirlo una sorta di scarafaggione allungato fornito di numerose zampe brulicanti.
Passata a fatica la prima reazione, il terrore, subito il Laurito, vero uomo, prese con due dita una pantofola e lo colpì, diciamo anche sobriamente, una botta e via, per frenare il disgusto dell'immaginarne il corpo schiacciato.
Poi l'eroe si alzò, e, preso da mille inutili impegni, se ne dimenticò.
 
E la giornata trascorse come sempre fra telefonate, contumelie, sorrisi, insulti, dicerie, vanterie, indulti, ancora telefonate e contumelie, abbracci, strette di mano, facce dimenticate e facce da ricordare, pioggia, politica, pagoio paghitu, sms, quattrini da spendere, quattrini da attendere, incroci, traverse, traversie, rimbrotti, preoccupazioni, illusioni e delusioni, venditori, call center, inciuci, sguardi, piccoli brividi, emozioni, progetti, disturbi, consolazioni, desolazioni, insolazioni frammiste ancora a pioggia, starnuti, bottiglie, imbuti, percosse, affronti, vittorie, sconfitte, souvenir, paura, tregua, un po' di quiete, forse. Insomma, vita.
 
Tornato a casa, il Laurito doveva occuparsi di mettere un po' in ordine.
Entrò in camera da letto, dove tutto era come aveva lasciato al mattino, vestiti, pigiama, calze, libri, bicchieri, e pantofole. Le prese.
Sotto una di queste, dimenticato, giaceva ancora l'enorme insetto del mattino.
Colpito troppo delicatamente molte ore prima, non era morto, alcune zampette ancora si flettevano, flebilmente, mentre il resto del corpo era però schiacciato. 
L'eroe ruminò rapidamente dentro di sé consolanti reminiscenze scolastiche, "gli insetti non hanno il sistema nervoso, non provano dolore", per giustificare che mentre lui aveva continuato banalmente a vivere la sua vita fatta di mille ripetute sciocchezze, Gregor Samsa, chiamiamolo così, stava agonizzando, magari cosciente, da così tanto tempo.
 
Riavvolto teneramente in un pezzetto di carta igienica, fu tumulato nel water, finito con una scarica dello scarico, tardivo colpo di grazia.
 
A tacere delle ulteriori reminiscenze scolastiche "ma non è che gli insetti non hanno il sistema respiratorio come il nostro e in acqua respirano benissimo?".
In base alle quali, se un altro dei prossimi mattini, dopo sogni inquieti, Giovanni Laurito troverà nel proprio letto un enorme insetto con un pantofolone in mano, se la sarà proprio cercata.
 
 
 
 
 
 

venerdì 24 maggio 2013

Questa è la mia vita

Per tuffarsi nel tempo perduto, si sa, non c'è nulla di meglio delle canzoni.
 
Un viaggio di otto ore in macchina con tutta la discografia di Ligabue appositamente nel lettore, con gli amici pure loro appassionati, a ricordare i tanti aneddoti, la prima volta che io portai al mare quella cassetta tarocca comprata da un marocchino, "Balliamo sul mondo", e a predire che quello lì, quello sconosciuto con la voce roca, sarebbe diventato famoso.
 
E lungo l'A1 a cantare a squarciagola Lambrusco e pop corn, coprendo la voce del navigatore che provava invano a consigliare l'uscita a 200 metri, invece saltata allegramente, e ancora a rispondergli "Questa è la mia vita!", quando quello insisteva, stremato "fare al più presto inversione di marcia".
 
E a confrontare da veri intenditori le due diverse versioni di "M'abituerò", scoprendoci tutti concordi nel preferire quella di vent'anni prima, dalla metrica approssimativa, ma intrisa del dolore di una delusione vera, come quelle che per amore puoi provare solo a vent'anni, e che tutti, beneomale, sapevamo di cosa si parlava. Si parlava dei giorni dell'università, dei domani neppure abbozzati, dei propositi buoni solo ad impegnarci ad arrivare al mattino successivo, e delle persone appena sfiorate eppure ancora presenti in certe notti di pensieri, e di quelle con cui invece hai fatto un bel frontale, e che non è il male nè la botta, ma purtroppo il livido perenne, una cicatrice col punto a croce.
 
Da una canzone di Ligabue, se hai un po' di tempo libero e voglia di holding back the years (ah, il vecchio Mick Hucknall), t'infili in un percorso che ti porta, in una sera piovosa di maggio, a rileggere Altri Libertini di Tondelli, e trovarlo straordinariamente inattuale proprio come te stesso, poi a metterti al pianoforte con i vecchi spartiti e suonare le tue canzoni, quelle che componevi nello stesso periodo in cui nell'aria del tuo borgo, a mille chilometri, girava la stessa brama di vita di Correggio e gli argomenti non potevano che essere gli stessi, tutti via a seguire una morbida scia, come se la pioggia che senti battere sui vetri fosse la stessa che rigava il parabrezza della 500 sulla strada per Ascea, quando non bastava il tergicristalli, e non bastavano le risate, le mani, i sogni di rock and roll.
 
Invece, quando si fa troppo tardi e la musica finisce, che domani si lavora, che i condomini reclamano, che tua figlia poi magari si sveglia e sono cazzi, allora ti accorgi che l'acqua ai balconi è acqua nuova, nè peggiore nè migliore, ma diversa, come quello che ci si specchia, ancora una volta sorpreso di quello che possa fare la percezione delle cose, che siamo fantasmi e non ce n'eravamo accorti, come in quel racconto, Willa, andatevelo a leggere, del King (Al crepuscolo), che in una trentina di pagine se sei superficiale ci trovi solo un raccontino horror, ma se ti ci soffermi un po', se guardi appena più in là del tuo naso e leggi tra le righe, capisci tutto, e allora non ti resta che sederti tranquillo con un drink in mano e aspettare che dopo questa che era l'ultima canzone la band magari farà un altro pezzo. E lo sanno tutti che i più belli arrivano coi bis.

mercoledì 22 maggio 2013

C'est plus facile

Sì, sì, rapitele e tenetele segregate in uno scantinato!
Vuoi mettere il tempo che si perde a conquistare una donna, anni di fiori, telefonate, battute tendenzialmente simpatiche, idee per sorprenderla, protezione, carezze, sorrisi, pensieri, e tutto questo per riuscire finalmente a convincerla a passare la vita con te?

Sì, sì, stupratele!
Vuoi mettere la fatica a convincerle ad uscire insieme, ad essere gentili, cortesi, interessanti, attraenti, per sperare che poi a fine serata della decima uscita magari c'è la speranza di riaccompagnarla a casa e chissà ...
Invece con lo stupro non c'è neppure la necessità di fare in modo che piaccia un poco anche a loro, e, ancora, non devi neppure lavarti prima, che è così demodè!

Sì, sì, uccidetele!
Ci mancherebbe che possano avere delle opinioni contrarie, che possano anche stufarsi di subire, o addirittura che smettano di amarvi. Così risolverete il problema una volta per tutte.

Sì, sì, fate tutto questo!
Ci mancherebbe che dobbiate anche essere uomini e non bestie, che purtroppo è così facile, a leggere i giornali in questi ultimi giorni. E in questi ultimi anni. E non solo.