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sabato 17 dicembre 2016

No reset, no regret

Resettare.
C'è questa bella parola nuova, che fai, non la usi? Non schiacci quel tasto così invitante?
Cancellare non rende l'idea, manca la ripartenza, il re-set, appunto.
Quel ricominciare da capo dopo aver fatto tabula rasa di tutte le derive emozionali, le passioni viziate, gli inciampi del cuore.
Per tornare a vivere.
Salvo accorgerti che erano proprio le cose che volevi cancellare a far sì, che fra mille ostacoli, ne valesse comunque la pena.
Allora vorresti premere il re-wind.
Ma quel tasto non c'è.
Il vento non torna indietro una volta soffiato, le foglie cadute non si riattaccano più all'albero.
Tornerà primavera, ti dici, e una nuova fioritura.
Tornerà il bel tempo, anche dentro di te.
In fondo anche le stagioni si resettano.
Sarà. Ma se faccio l'anagramma mi esce "estate no". E avanza pure una R, iniziale di rimpianto.

sabato 3 dicembre 2016

L'irriconoscenza

Ho letto un dramma di Pietro Carbone (uno scrittore del mio paese, mio amico, che ci ha lasciato qualche anno fa), "L'irriconoscenza", del '61.
Trama semplice, senza sorprese, ma personaggi forti, un po' alla Hugo, se riesco a spiegarmi.

E mi sono ritrovato a riflettere sull'amore come riconoscenza. Non quello apertamente do ut des, tipo mi dai l'esame o una raccomandazione e in cambio vengo a letto con te. No, quello più sfumato del mentore, o quello del datore di lavoro generoso, dell'amico/a che si prende cura e ti sta vicino in un momento particolare, e che normalmente non terresti in considerazione.
Un amore che sa di tenerezza ma che sconfina nella pena. Un amore che può essere approfittamento.
Quella però è forse l'unica strada dell'amore con il passare degli anni. Oppure una facile scorciatoia. Ma a quel punto non è meglio un amore comprato? Con un prezzo, senza illusioni.

E mi sono trovato a fare queste considerazioni pensando a come mi sarebbe piaciuto parlarne con l'autore, invece non è capitato.

E anche al potere della scrittura, della letteratura. Che sei lì a buttare giù dei pensieri, a scrivere storie su una vecchia Olivetti. E qualcuno ancora neppure nato ne parlerà 55 anni più tardi.
Ad amici quasi immaginari, su una tastiera touch, con parole fatte non di inchiostro ma di bytes, che nessuno ricorderà non fra 55 anni ma neppure fra 55 minuti...

sabato 2 luglio 2016

Il pulcino Piero


Il tunnel. E’ una metafora troppo facile, ma se la usano in tanti vuol dire che funziona. E per questa storia, dovunque la si osservi, è perfetta. 
C’è una montagna che sembra insormontabile.
L’opera instancabile dell’uomo per realizzare una galleria.
C’è la luce, che sembra si stia finalmente uscendo. 
E il timore che si tratti ancora di un treno in senso contrario.

Piero, si chiama il bambino protagonista del nostro racconto.
Il suo nome è quello di un familiare, come spesso si usa.
Ma in realtà è il nome di un pulcino.
Il papà da piccolo vinse un animaletto al luna park. Poteva chiedere un criceto, ma non voleva credere che la vita è una ruota che non porta da nessuna parte. O un pesciolino rosso, che scambiano una busta e mezzo litro d’acqua sporca per l’immensità dell’oceano iscritta nel loro dna. Invece scelse un pulcino, perché i suoi genitori gli dissero che avrebbe potuto tenerlo senza gabbia. E quello lo ricambiò subito, con un imprintingpotente, di quelli da incubatrice, che mamma gallina non l’hanno mai vista e si affezionano a qualunque cosa. Lo battezzò Piero, per puerile assonanza con il suo classico pigolio, e lo tenne con sé, accarezzandolo, nutrendolo, prendendosene cura notte e giorno per un paio di mesi fino a quando era ormai troppo grande per rimanere nell’appartamento, e allora, non senza lacrime, accettò che fosse affidato al nonno che aveva un pollaio.
Il finale sembrerebbe quasi una barzelletta, con lui che in vacanza in campagna ne mangia senza saperlo la parte migliore, riservatagli fra tutti i commensali quasi per un diritto di prelazione, del quale, se ne fosse stato consapevole, avrebbe fatto volentieri a meno.
Ma così divertente non fu, quando, per colmo di iniziazione, appena dopo che ebbe consumato il pasto, gli fu rivelato di cosa, anzi di chi si trattasse. La bonaria logica del nonnofigliolo, gli animali son fatti per questo, non ne rintuzzò i violenti conati di vomito, e in seguito il senso di colpa e la diffidenza verso il cibo, che impiegò tempo ad attenuarsi, se pure fu mai del tutto sopita.
Chissà se il padre ripensò a quella lontana storia quando si dovette dare il nome al suo primogenito. Ora dice di no, che Piero è il padre della moglie, e dalle loro parti ancora si usa omaggiare in questo modo uno dei nonni, ma certo che quando ci ripensa, alla luce dei disturbi avuti dal bambino, gli sembra una coincidenza davvero curiosa. Anzi, una maledizione, gli è scappato una volta, fra i denti, absit iniuria verbis, che i figli son sempre benedizione, almeno così ci insegnano a pensare. Altrimenti difficilmente potremmo superare indenni le ansie e le preoccupazioni con le quali incidono il nostro cuore di genitori, specialmente nella società attuale in cui riversiamo su di loro ogni aspettativa, come in uno specchio dalla cui immagine ci aspettiamo sempre di essere perfetti, diventando noi il loro ritratto di Dorian Gray.
Piero cresceva bene, non presentava alcun disturbo particolare, le solite colichette addominali e qualche episodio di reflusso gastricocon un po’ di vomito. A cinque mesi il pediatra consigliò lo svezzamento, e allora mangia tesoro, che mi diventi grande e forte, gnam gnam
Eppure quando la mamma provò a somministrargli le prime pappine, sembrava mandare giù tranquillo i primi cucchiaini e poi, d’un tratto, li rigettava. E così Piero non mangiava, qualunque cibo diverso dal latte arrivasse alla sua boccuccia veniva sempre rifiutato con violenza. 
I mesi passavano veloci, fu sottoposto a numerosi esami e non fu riscontrata alcuna particolare patologia gastrointestinale tale da comportare questa reazione, eppure ormai aveva compiuto quasi cinque anni e si andava avanti a latte e biscotti, si era aggiunto a fatica lo yogurt, ma ogni altro tentativo di immettere cibi solidi non sortiva effetto positivo, e la situazione non era più sostenibile perché gli venivano a mancare troppe sostanze necessarie al suo sviluppo.
Siamo in un piccolo paese del sud, si provarono persino rimedi magici, come scacciare il malocchio, l’invidia che poteva avere preso di mira quel bimbo così grazioso e la sua famiglia.Furono convocate anziane signore depositarie di antiche formule, buone per guarire da ben “centouno” malattie, come recitava una delle filastrocche ripetute a cantilena, accompagnate da sbadigli rituali, lacrimazioni catartiche, e infine da altri tentativi, quasi forzosi, di fargli ingurgitare un cucchiaio di pastina.
Lo sfinito Piero pareva quasi  accettare, con contestuale soddisfatto annuire della guaritrice, avete visto?, sembrava dire allargando un sorriso come un crepaccio su quel viso solcato da profonde secche rughe, prima che venissero inondate dal getto di vomito compresso del bambino.
Ma quei rimedi non potevano avere successo perché fra le centouno malattie catalogate dagli ideatori di quelle nenie apotropaiche non era compresa la disfagia funzionale, ciò di cui realmente soffriva il piccolo.
Non un problema organico, dunque, ma una fobia.
In sostanza - riassunse esemplarmente il padre dopo che la psicologa gli ebbe esposto la diagnosi - ha paura del cibo.
Il vomito, capitato magari per caso o per un reflusso passeggero al momento di provare le prime volte ad ingerire un cibo solido, lo avevaspaventato, gli provocava allarme, temeva di soffocare, ed allora rifiutava gli alimenti diversi da quelli consueti, per lui gli unici affidabili.
E che fai, ad un bimbo così piccolo, come glielo spieghi che la sua paura è irrazionale? Le terapie cognitive sono difficili in età più adulte, figuriamoci a cinque anni. Fu iniziata così una terapia comportamentale. 
Piccoli premi ad ogni progresso. 
Racconti per distrarlo, rilassarlo. 
E allora suo padre si ricordò del pulcino. Non gli narrò tutta la storia, quel finale amaro che aveva provocato per anni in lui reazioni, al momento di assaggiare la carne, simili a quelle che provava ora il bambino. Gli parlò, invece, di come gli procurava il calore necessario, delle carezze, della copertina fatta con uno straccetto e della lampadina da venti watt attaccata con lo scotch alla scatolina di legno in cui lo accudiva. Gli raccontò di come provvedeva a nutrirlo, come la mamma che il pulcino credeva che fosse, delle briciole di pane inzuppate nel vino che Piero raccoglieva nel minuscolo becco e poi mandava giù con uno scatto del collo. 

Guardami, Piero! Il cucchiaino si avvicina alla boccuccia come un treno che deve entrare nella galleria, ciuf ciuf e… aaaaammm!

Papà, te lo giuro che ci provo. Ma è come se dall’altra parte della galleria stesse arrivando un treno ancora più veloce. Ma te lo giuro che ci sto provando, siamo in due a farlo, lo capisco che hai la mia stessa paura, ma leggo anche la fiducia nei tuoi occhi che sono i miei, non lo so che si chiama imprinting quell’amore che provo per te e mamma, io so solo che ti seguirei in capo al mondo, perché tu sei forte, mi proteggi, mi vuoi bene. 
La apro, la boccuccia, papà, faccio come il pulcino Piero
Apro la bocca e chiudo gli occhi. 
E’ una promessa, la manterrò. 
Sarò ciò che vuoi che io sia. 
Perché con te non ho paura, perché mi fido di te, papà. 
Sì, sono il tuo pulcino. Stavolta mangerò. 
Ma mentre parli, accarezzami. Sì, così, sulla testa. Gnam.

La pastina rimane in bocca a lungo, come un viaggiatore in attesa di destinazione. Poi il piccolo prova a deglutire, contrae i muscoli del collo, in quel gesto automatico che invece lui compie con evidente sforzo. 
Gli occhi strizzati, la fronte imperlata di sudore, le labbra si schiudono e il papà pensa che il regionale del cibo abbia dovuto di nuovo dare la precedenza al Frecciarossa del vomito. 
E invece si sente la voce del capotreno.
Buona. Me ne dai ancora, papi?

Oggi Piero ha sei anni e mezzo, aiutato dalla terapia e dimostrando molta forza di volontà ha superato la fase più delicata. Gli è stata utile anche la consigliata frequentazione della mensa scolastica, il desiderio di socializzare, ed è riuscito ad aggiungere diversi alimenti alla sua dieta. A pranzo mangia la pastina, solo con un po’ di difficoltà iniziali. E a merenda la frutta. La mamma gliela schiaccia ancora un pochettino, è vero, ma ormai è un ometto, le mostra i dentini, cosa credi che io non li sappia usare? Io non sono più un pulcino, sono un leone, roarrr
E quel ruggito, che per la verità è più un miagolio, si trasforma in un limpido sorriso, e poi in una risata serena di entrambi.
Sì, forse quella luce in fondo al tunnel non era un treno.
Era proprio l’uscita.

domenica 22 maggio 2016

Niente da carpire

Perché il dentifricio AZ si pronuncia a-zeta? Forse detto come sta scritto suonerebbe male? Ma a chi importa, è un dentifricio, mica un pianoforte, anche se il sorriso di alcuni ricorda una tastiera, con i tasti bianchi e quelli neri insieme. Di sicuro non è uno strumento razzista, forse lo è di più il dentifricio che promette denti sempre più bianchi e allora ci sta proprio pronunciarlo così come scritto, perché è una sorpresa, come quando lessi la storia del cane che doveva tornare a casa e pensavo che era scappato per non finire come rex, che la padrona lo metteva nella lavatrice, o, come cita l'amica di Tarzan, meglio un uomo scimmia oggi che una gallina domani perché è un altro giorno e gallina vecchia fa buon brodo soprattutto se lo mangia qualcun altro mentre tu te la spassi con qualche pollastrella su cui puoi premere i tuoi polpastrelli e lasciarle addosso le impronte digitali che quelle cartacee sono ormai fuori tempo come un fazzoletto, la cui ultima metà è insieme riposo e rivista, quel giornale che quando lo sfogli non è mai la prima volta, come queste strane allitterazioni occasione di letto ho mancato un di, e la mia settimana è corta, come la coperta, una volta scopri i piedi e l'altra la testa e mai l'America, più spesso l'acqua calda, con cui, per la sensibilità, sei costretto a lavare i denti lentamente avendo il tempo di riflettere sul perché il dentifricio si chiama az ma ci ostiniamo a pronunciarlo a zeta...

sabato 23 aprile 2016

Vent'anni dopo.

Vent'anni dopo.
Dumas intitolò così il ritorno dei Tre moschettieri. Guccini, nell'88, ricordando la Primavera di Praga un'illusione di rivoluzione dissoltasi due decenni prima fra i cingoli dei carri armati russi, chiamò "Quasi come Dumas" una raccolta di canzoni di quel periodo.
Come scrittore non ho nulla a che vedere con il genio francese dell'800, e come cantautore non posso neppure accordare la chitarra al poeta di Via Paolo Fabbri 63, ma con entrambi posso almeno condividere l'inevitabile consapevolezza del tempo che passa, e il bisogno di parlarne per provare in qualche modo ad esorcizzarlo. Perché come il malato di alzheimer che dimentica di esserlo e guarisce, così spesso mi viene facile fare come lo struzzo, nascondere la testa (e gli ormai pochi capelli) sotto la sabbia sperando che i giorni scorrano oltre dimenticandosi di me. Ma come si spiega in 22.11.63, il romanzo capolavoro di King sui viaggi nel tempo, ben trasposto in una recente serie TV, quando vuoi fottere il tempo, devi stare attento, spesso è lui a fottere te. Così mentre io mi illudo che la mia professione sia una scelta ancora precaria, un'occupazione temporanea, che un giorno non lontano potrò finalmente riuscire a dedicarmi a tempo pieno alle mie passioni, farne un lavoro, oggi per caso sistemando lo studio mi è caduto l'occhio sulla mia pergamena di laurea appesa al muro. Quel documento che ho sempre considerato niente più che un pezzo di carta ("devi avere il pezzo di carta", intimavano i miei, quando chiudevo i libri anzitempo per correre a suonare da qualche parte), sta incorniciato nello studio più per dovere che per convinzione: come se dovesse essere presto sostituito dalle foto dei concerti o dei premi letterari. Sta lì giusto qualche mese, ho pensato.
Ma togliendo la polvere ho visto la data e non potevo credere ai miei occhi: il Magnifico Rettore conferiva al sottoscritto proprio oggi la laurea in giurisprudenza. E quel 24 aprile, assurdamente, era del 1996.
Vent'anni fa. Una vita.
Senza accorgermene davvero.
Continuando a fare le stesse cose, a lavorare continuamente che tanto è un passaggio, a vivere senza farlo davvero, illudendomi immune e poi riportato alla realtà da quella pergamena in cui il nome non doveva essere il mio ma Dorian Gray, un ritratto che ha assorbito e inchiodato al muro senza che me ne accorgessi le mie rughe e le nefandezze del tempo.
Penso di scrivere qualcosa, mettere su carta e allontanare dal cuore ormai fragile lo sciocco stupore di questa scoperta.
Poi sento una voce che mi chiama, delicata e a modo suo imperiosa. Papà, è pronto!
Un momento, rispondo.
Ma lei mi viene accanto con passo leggero, mi toglie di mano il telefono e sfiora la guancia con un bacio.
Vieni, non far passare troppo tempo, ti aspettiamo.
No, tesoro. E sorrido pensando che in fondo non tutto il tempo è passato invano.

venerdì 8 aprile 2016

Terapia di coppia per scrittori

Col passare degli anni si acuiscono le mie insofferenze. Ad esempio.
Amo leggere, ma gli autori che sopporto sono rimasti davvero pochi. È che non appena inizio a sfogliare le pagine di un romanzo entro in competizione con l'autore e, a causa del mio ego smisurato, ritengo di essere più capace io. Il che porta come corollario la frustrazione nel prendere atto che nonostante sia più scarso di me, quello è stato pubblicato e io no. Così prendo il libro e lo sprofondo nell'ultima fila della libreria in una sorta di damnatio memoriae.
Sarebbe indelicato fare qui dei nomi, e non pensate ai soliti tipo Fabio Volo ma solo perché di leggerlo non avevo alcuna intenzione. In quello scomparto punitivo della mia biblioteca si annidano anche autori omaggiati dalla critica, ma stroncati dalla mia presunzione.
Per non parlare poi della musica, ascolto ogni canzone in modo così prevenuto che pure la Bohème mi pare un motivetto da quattro soldi rispetto alle mie stupende composizioni; figuriamoci quindi i vari fantocci che riempiono le attuali classifiche con le loro banalità mentre i miei pezzi languono nel dimenticatoio.
È così per ogni settore in cui io mi sia cimentato, cinema, teatro, politica... È sempre più frequente la riflessione che io meriterei più di tanti altri quella considerazione. Drammi della poliedricità, magari se invece di disperdere il mio innegabile talento in mille rivoli lo avessi impiegato in una sola arte, avrei forse raggiunto i risultati che ritengo di meritare. 
E siccome si è fatto tardi, gli anni sono passati e i migliori dietro le spalle (e sappiamo bene se non si sta attenti cosa ti fa chi è dietro le tue spalle), la consapevolezza del definitivo oblio delle mie creazioni mi porta a invidiare - in senso etimologico, guardare male - chi invece è riuscito ad emergere.
Un vantaggio c'è: che ormai ascolto e leggo soltanto opere di autori geniali. E tutto questo sproloquio era solo per omaggiare la prosa del libro che mi sta accompagnando in questo viaggio in treno. Terapia di coppia per amanti, di Diego De Silva. Uno capace di scrivere, con riferimento all'amante che ha chiamato alle quattro di notte svegliando tutta casa perché voleva raccontargli un sogno:
"Hai partorito l'horror sentimentale che ti ha fatto svegliare sconvolta? Pensi (chissà perché) che il tuo inconscio ti abbia voluto mandare un messaggio indecifrabile che ti ha turbato e di cui vorresti parlarmi? E parliamone il giorno dopo, no? Riaddormentati, oppure alzati, vai a farti un cappuccino di Xanax, un canarino corretto, una canna di passiflora, guardati una televendita: che fai, mi telefoni? Ma sei imbecille? E dimmi, Pulitzer della Discrezione, cosa avrei dovuto fare, risponderti?"
Datemi mille romanzi così, magari letti ascoltando in cuffia pezzi intelligenti come l'ultimo album di Daniele Silvestri, e torno a darvi ragione del non avermi voluto pubblicare.


Scherzo. Ne avete eccome. Faccio queste moine solo perché voglio coccole. E perché altrimenti vi chiamo uno a uno alle quattro di notte...

sabato 12 marzo 2016

Monetine

Passeggiando in Piazza Navona, a Roma, in una sera di marzo in cui il tempo batteva inesorabile il suo ritmo, mi capitò di sentire una melodia amica.
Un gruppo di musicisti, di quelli che trovi solo a Piazza Navona, trasandati ma geniali, stava eseguendo una magnifica versione acustica di Sultans of swing dei Dire Straits. Un brano al quale non solo i bravi chitarristi ma anche chi strimpella appena come me è molto legato, per via di quell’assolo infinito inserito da Mark Knofpler a due terzi del pezzo, splendido e irripetibile, eppure da tutti provato a rifare non appena si imbraccia una chitarra e si impara a suonare l’accordo in re minore al quinto tasto.
Perché è un riff magico, un giro irresistibile appoggiato su tre soli accordi, che ti cattura e vorresti non finisse mai, e chissà quanti come me, all’apparire del genio della lampada, si troverebbero indecisi fra desiderare l’immortalità o saper suonare alla perfezione l’assolo di Sultans of swing. Forse perché, in fondo, quando si usa l’espressione “suonare da Dio” c’è un fondo di verità, solo una divinità può creare, col semplice movimento delle dita su delle corde di metallo, un miracolo simile.
E quella sera, forse, il chitarrista di quel gruppo improvvisato doveva chiamarsi davvero Aladino, perché le sue mani, appoggiate al barré del quinto, facevano fluire limpida dalla chitarra la magia di quel brano senza alcuna imprecisione o intoppo, che sarei stato lì per ore ad ascoltarli.
Ma ero in compagnia di mia moglie e mia figlia, esiste anche un video sul mio cellulare che immortala per i posteri, insieme all’esecuzione perfetta della canzone, l’indifferenza totale delle mie donne, per altri versi così sensibili, a quell’incantesimo.
Così quando mi avvicinai, alla fine del brano, per lasciare un piccolissimo obolo nella cassettina dei musicisti per ringraziarli del dono che mi avevano fatto, non sospettavo neppure lontanamente l’errore che stavo commettendo.
Infatti, quel misero euro e cinquanta con cui avevo indegnamente ripagato il regalo di compleanno che mi aveva fatto quella band di strada, guarda caso erano gli unici soldi che avevamo con noi, e così facendo avevo privato mia moglie della possibilità di un caffè, provocando una reazione umorale che può comprendere soltanto chi abbia avuto accanto, alternativamente, un tossicodipendente all’ultimo stadio di astinenza o, appunto, una moglie che vuole prendere un caffè e tu non glielo offri in quell’istante.
Ora non voglio farla apparire come una persona incline al vizio o alle reazioni eccessive – anche perché potrebbe leggere questo scritto… - e dunque dirò che la colpa fu senza dubbio mia che, del tutto ignaro degli effetti della carenza di caffeina (giacché non prendo né droghe né caffè), mi azzardai a dire che, tutto sommato, avevamo almeno ascoltato una canzone eseguita deliziosamente.
L’assolo, da quel momento, mi disse, potevo considerarlo linea guida della mia futura vita amorosa.
Ma non finì neppure qui, niente affatto.
Perché proseguendo nella passeggiata verso Castel Sant’Angelo, mia figlia undicenne adocchiò un mendicante ai bordi del ponte. Un tizio senz’arte né parte, privo di particolari patologie quantomeno visibili, che chiedeva la carità in un punto strategico molto frequentato dai turisti, quindi certamente messo lì dal racket delle elemosine, altrimenti col cavolo che poteva occupare quell’incrocio.
Bisogna dire che anche in questo caso l’esecuzione lamentosa era pregevole, e, vero o finto che fosse il suo disagio, una moneta gliel’avrei pur data, anche su incitamento di mia figlia che infatti mi strattonava invitandomi a farlo, lei che è particolarmente sensibile a qualsiasi causa umanitaria.
Ma non avevo altri soldi, glielo dissi, gli ultimi li avevo dati ai musicisti.
Apriti cielo! Che persona malefica che ero, rifiutavo di aiutare un povero storpio (che secondo me in realtà corre tranquillamente i tremila siepi), e invece avevo dato volentieri del denaro a quei suonatori da strapazzo! Ed hai voglia a fornire tutte le giustificazioni possibili, quando una figlia ti mette il broncio, la vacanza può essere rovinata definitivamente. Le provai tutte, mi ridussi io stesso a mendicare la sua comprensione, ma, guarda un po’, a differenza del tizio sul ponte, io non la impietosii neppure un pochettino. Si girò sdegnata e si avviò verso l’albergo senza avere la minima idea di dove fosse, guidata da un navigatore interno che aveva come destinazione programmata quella di andare comunque il più lontano possibile dal padre. La indirizzai a fatica verso il percorso corretto, che però conduceva di nuovo attraverso Piazza Navona.
Passammo così ancora davanti a quegli alter ego dei Dire Straits, in quel momento stavano suonando alla grande un altro pezzo storico, ma appena mi volsi mia moglie sarcastica faceva il segno della tazzina del caffè e mia figlia con sguardo torvo tendeva la mano, così non rallentai neppure. O meglio, per un attimo pensai di farlo, ipotizzai di distrarli in qualche modo, riprendere il mio euro e cinquanta dalla cassettina e scappare via fra la folla. Ma quella sera compivo quarantasette primavere, anzi, era l’autunno quello che stava arrivando nella mia vita, e non potevo tradire proprio allora i ricordi della mia gioventù che l’ascolto di quella vecchia canzone mi aveva suscitato. Di quando sognavo che un giorno sarei stato davvero su un palco a suonare, novello Mark Knopfler, quell’assolo geniale, con la folla in visibilio ai miei piedi. Forse lo sognavano anche quegli stagionati musicisti, e la vita li aveva traditi nonostante il talento. O forse l’avevano scelto proprio loro di essere liberi, di suonare in una piazza, di regalare il loro talento ai passanti in cambio, quando andava bene, di qualche monetina o di un timido applauso. E dunque feci solo un lieve saluto al loro indirizzo e non rallentai il mio passo, addio, o meglio, alla prossima. Quando giuro che mi riempirò le tasche di spiccioli, e mentre mia moglie con quei soldi si inietterà caffeina endovena e mia figlia risolleverà i destini di tutti i derelitti, veri o finti, che vagano per Roma, mi siederò di fronte al chitarrista e, mimando con le dita gli accordi, ad occhi socchiusi, duetterò finalmente insieme a lui come un vero Sultano dello swing.

P.S. Scusatemi, Genny e Rosaria. Solo una piccola licenza poetica per colorire la storia. So bene che in realtà voi assecondate con dolcezza tutte le mie fisime. Soprattutto dopo aver bevuto il caffè, e quando non ci sono in giro mendicanti…





domenica 21 febbraio 2016

L'Eco di uno scontrino

Quando, all’incirca dieci anni fa, mi affacciai al mondo del blogging, si trattava di un universo in piena espansione. Erano state create svariate piattaforme ed ognuna di esse accoglieva un numero esagerato di blog, la gran parte dei quali, pur presentando contenuti assolutamente banali – o forse proprio per questo – aveva un notevolissimo seguito. Si trattava di veri e propri diari, in cui quotidianamente si raccontavano le proprie riflessioni e descrivevano eventi capitati a casa, sul lavoro, nei rapporti amorosi. Ogni post suscitava una caterva di commenti del medesimo tenore, creando un interscambio basico per l’epoca assolutamente originale e voyeuristicamente attraente. Potremmo paragonare il successo di quei pionieri a quello della prima edizione del Grande Fratello televisivo, quando ci tennero a milioni incollati davanti al teleschermo le vicende di più che ordinaria quotidianità sentimentale che coinvolgevano Pietro Taricone, Marina La Rosa e gli altri abitanti della “Casa”. Ulteriore elemento intrigante (e che maggiormente distingue il fenomeno del blogging dai più recenti facebook e twitter) era l’assoluta libertà di anonimato. La maggior parte dei bloggers usava nickname, le immagini erano spesso avatar grafici, e i riferimenti alla vita privata, se pure espliciti, interessavano per il fatto in sé, non per l’autore, atteso che nel 99,99% dei casi i blogger e i lettori (quasi sempre blogger a loro volta) non si conoscevano affatto, prima.
In realtà, rispetto a quest’ultima considerazione, la mia potrebbe sembrare un’eccezione, in quanto fui introdotto a quel mondo da una blogger mia amica. Ma siccome non si trattava di una ragazza che frequentavo ma che avevo conosciuto in una chat e non ci eravamo mai visti, probabilmente anche il mio caso rientrava nella consuetudine. Appassionato da sempre di scrittura creativa, da principio ebbi difficoltà ad uniformarmi allo stile imperante del “web log” (poi contratto in blog), cioè del diario online. Non ero abituato a scrivere di me, soprattutto non ne avevo voglia, almeno non in maniera diretta. Così pensai di riflettere me stesso negli argomenti trattati, notizie, cinema, televisione, politica, il tutto senza realmente approfondire quanto commentato, ma soltanto come spunto per parlare di me. Insomma, una scrittura yo-yo, che lanciavo srotolando il filo dei miei pensieri e mi ritornava accresciuta da quelli dei miei lettori che anch’essi commentavano la notizia ma, in realtà, parlavano di me e insieme di loro. E il successo fu notevole, Glaurito divenne un nome noto fra i blogger di Splinder, la piattaforma su cui scrivevo.
Il riferimento, certamente troppo alto, che avevo voluto prendere come esempio, era quello delle Bustine di Minerva pubblicate da Eco sull’Espresso. Per avvicinarmi ancora di più al modello che aveva intitolato la rubrica con quel nome, che richiamava le scatoline di fiammiferi sul cui retro si usava appuntare nomi, indirizzi o numeri di telefono, io, non fumatore, avevo pensato di chiamare il mio blog “Il retro dello scontrino”. L’enorme distanza, anche di classe, fra i due titoli, mi distolse da quell’idea malamente scopiazzata e il blog si chiamò “il Contrario di tutto”, nome che resiste tutt’ora se non nell’intestazione, nell’indirizzo web di questo più recente blog.
Poi il tempo passò, i blog si ridussero sempre più di numero e visitatori (passato il momento di euforia, la gente che non era abituata a scrivere e a leggere tornò alle sue abitudini), soppiantati dai più semplici e meno impegnativi social media, e rimasero in auge soltanto quelli più settoriali.
Io stesso scrivo qui, ormai, molto più di rado quanto vorrei. Abituato, anzi, al microblogging di fb e twitter, mi capita di sentirmi privo di allenamento ad una composizione più lunga e poi, diciamocela tutta, è inevitabile seguire la moda. La gente va dove sta altra gente. I ristoranti vuoti sono sempre più vuoti e quelli pieni sempre più pieni. Un’applicazione ancestralmente radicata nel nostro DNA di animali da branco. Un post scritto qui ha una diffusione di molto inferiore a quella che può avere su facebook. Anzi, sono convinto che tra queste Caramelle potrei nascondere anche il pin del mio bancomat e non se ne accorgerebbe nessuno. E se invece accadesse, non mi dispiacerebbe affatto. Innanzitutto perché di questi tempi pure i soldi sui conti correnti hanno fatto la fine dei blog, ma soprattutto in quanto chi mi segue, e spesso sono persone che lo fanno da tanto, sono da considerarsi ormai davvero degli amici; Amici veri, non come quelli di facebook che ti conoscono solo di vista o al massimo cuggino del cuggino. Qui la gente ti conosce nell’anima.
E allora questo post, scritto sul balcone godendo di un primo timido sole, quasi primaverile, è per voi, e per me. Per ricordare en passant quel Grande Maestro scomparso ieri lasciando un vuoto davvero incolmabile, e perché, in fondo, le mode sono come un cerchio, sono tornati i pantaloni a zampa di elefante, torneranno anche i bei tempi dei blog.
E allora tanto vale star qui, attendere, e guardare la collina.
E’ così bella.

P.S. 51313


venerdì 5 febbraio 2016

Il giorno che diventammo una foto in bianco e nero

"...Quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l'ore future..."
(da "I sepolcri" di U. Foscolo)
La morte. Ecco il tema di oggi, ragazzi miei.
Quel contagio dal quale nessuno di noi è immune, la méta che da sempre attrae ed inquieta, la consapevolezza, propria dell'uomo, della sua caducità.
La puoi provare ad esorcizzare con la religione, con la filosofia, con l'eutanasia.
O con una fotografia.
Vivo in un paesino di mille abitanti, e altre mille anime di quello stesso paese ho conosciuto nei decenni trascorsi della mia vita, persone con cui ho diviso una carezza, un tratto di strada, una partita a carte o a pallone, magari solo un saluto, un sorriso o un semplice buonasera. E che non ci sono più.
Su una pagina creata di recente su facebook sono state pubblicate centinaia di fotografie dei tempi andati, scolaresche, processioni, feste. In quelle sbiadite immagini ho rivisto persone indimenticabili eppure dimenticate. Volti che hanno accompagnato la mia infanzia, di ognuna di esse si ricordano aneddoti, soprannomi, virtù e, perché no, vizi, ché il nostro è un paesino, l'altra medaglia del conoscersi tutti è sapere i fatti di tutti, come in un'eterna telenovela.
Eppure, dopo un primo accenno di malinconia, quelle fotografie non mi hanno messo tristezza, anzi. Quella stessa piazza dove si affollavano centinaia di persone per un evento, esiste ancora. Le persone sono altre, è vero, ma spesso nei loro occhi, nei tratti somatici di famiglia (la pétena, nel nostro dialetto) si scorge a chi "appartengono", come pure in quelle antiche foto rimani stupito, quasi spiazzato tanto da pensare ad un fotomontaggio. Sembrano persone attuali e poi guardi meglio e ti accorgi che sono i loro padri, i nonni alla stessa età degli uomini e donne di ora.
Insomma, ci si sente in compagnia anche fra estranei, capisci, o almeno ti sembra di intuire il vero significato dell'eterno ritorno, una mescolanza di geni che si ricompone in nuove forme, come in un puzzle, e ciononostante trova sempre un'unità, una compiutezza della quale anche chi non c'è più continua a fare parte e ti rende più accettabile anche il pensiero del trapasso. Che non a caso un sinonimo di fotografare è immortalare...
Di converso, penso a volte a quanto possa essere spersonalizzante la vita in una grande città. Non è un elogio alla provincia, però quando io imbocco la via del centro storico che porta a casa mia - ne ho scritto tempo fa proprio su questo blog - oltre a salutare, riconoscendola, ogni persona che incontro, posso ricordare ad ogni porta chi ci viveva e chi ci vive ora, anche se la percorro da solo alla fioca luce di un lampione, è illuminata dal ricordo di tanti volti e facce a me noti se non proprio cari. Posso ricordare la loro voce, il tocco caldo della loro mano, in altre parole l'umanità. In una città, del vicinato posso conoscere al massimo l'inquilino dell'appartamento sul mio pianerottolo, in un susseguirsi di persone, negozi, attività che cambiano di continuo e il cammino di quelle vite mi diventa immediatamente estraneo, non ne conosco l'alfa, non ne conoscerò mai l'omega.
Ho studiato a lungo, per passione, la storia della mia terra. Oltre alle persone che ricordo, mi pare di conoscerne tante altre di cui in realtà ho appreso soltanto dai libri, dai registri di nascita e morte, dagli archivi, dai resoconti, dalle lettere che mi hanno raccontato stralci delle vite di un tempo. Ed anche dalle epigrafi sulle tombe. Quella alla fine del vecchio cimitero, un tempo elegante di marmi di una famiglia nobile funestata da lutti, in cui l'anziano barone scapolo, ingiustamente sopravvissuto a fratelli più giovani e nipoti, nella solitaria vecchiaia aveva lasciato ai posteri la sua desolazione, auspicandosi, nell'iscrizione in cui ricordava i suoi cari, di raggiungerli quanto prima.
Visitare i cimiteri è un esercizio che può anche ritemprare. Come per il Foscolo, del quale citavo sopra la frase così musicale e struggente che mi è rimasta impressa sin dal liceo, anche a me è capitato perdermi nella contemplazione degli antichi sepolcri. Da quelli monumentali come il Verano, muta città-oasi nella confusione romana, a quello Acattolico nei pressi della Piramide. Incisioni che ricordano poeti maledetti, giovani innamorati infelici, o semplicemente uomini dalla vita anonima resi però immortali da una frase.
Come quella che ho lasciato detto ai miei cari di far iscrivere sulla mia lapide, quando sarà.
Due semplici parole. Un augurio o forse una minaccia.
"A presto".