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martedì 27 ottobre 2015

Il nodo di scambio


Avevo già i miei dubbi, ma fu esattamente dieci anni fa che realizzai che la politica non era fatta per me. Quel periodo in cui, giovane avvocato intriso di concetti etici, mi illudevo che la disponibilità, l’impegno, la passione, fossero carburante sufficiente a spingere la macchina del consenso. Dovetti invece accorgermi che le cose non stavano affatto così, che ciò che conta per la gran parte degli elettori è ben altro. Potreste pensare al voto di scambio, all’opportunità di un posto di lavoro che, nel nostro sud flagellato dalla disoccupazione, è sicuramente stimolo più forte dei meri ideali. Magari fosse stato solo questo, lo avrei ben compreso e accettato. C’era dell’altro.

Avevo radunato alcuni amici, più o meno della mia età, quelli con cui avevo trascorso la giovinezza al paese e, davanti ad una pizza, provavo ad illustrare il senso della mia candidatura alle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di lì a pochi mesi; parlavo di condivisione, di speranza, di necessità di “entrare nel palazzo” perché solo dall’interno era possibile imprimere una svolta concreta, di lotta contro l’immobilismo atavico che frenava ogni possibilità di sviluppo del nostro paese ancora fermo, nella mentalità, al secondo dopoguerra.

Così chiedevo il loro voto, per provare a cambiare le cose, per “guardare avanti” (era questo il mio slogan). Uno di loro, però, che era rimasto silenzioso, al mio invito ad esprimere le proprie perplessità, mi rispose che sì, le cose che dicevo erano valide, però lui “doveva” votare per l’altro candidato, verso il quale aveva un forte debito di riconoscenza. Mi chiesi cosa mai gli avesse fatto di così importante, anche perché ricordo che veniva da me per ogni problema legale (aveva una piccola attività imprenditoriale) che io gli risolvevo, peraltro sempre gratis. Lui non volle rispondermi, e dopo i convenevoli, andò via. Qualche giorno dopo un altro di coloro che erano con me quella sera mi disse che gli aveva rivelato le ragioni del perché non intendeva votare per me ma per l’altro candidato. Perché questi gli aveva insegnato a fare il nodo della cravatta, e anzi, quando c’era un matrimonio e lui doveva mettersela, era persino andato a casa sua a stringerglielo.

Tralasciando il fatto che in quel momento se lo avessi avuto fra le mani gliel’avrei stretto io come si deve quel nodo intorno al collo, davvero non potevo crederci, ma l’amico davanti a me mi confermò che era proprio così, che nel raccontarglielo quello era assolutamente serio.

Colsi da quell’evento auspici negativi. Se un giovane si lascia convincere a votare per un candidato che rappresenta il passato per una ragione assurda come questa, non c’è speranza. A maggior ragione in quanto io, il mio amico, non l’avevo mai visto con una cravatta! Non è che si trattasse di un’esigenza primaria e quotidiana, eppure…

Gli auspici negativi si realizzarono, io persi le elezioni e insieme a loro ogni mia speranza di un cambiamento che, infatti non c’è mai stato.

Quell’amico lo reincontrai qualche anno dopo. Eravamo ad un matrimonio. Lo salutai ma non mi rispose, emise solo un grugnito. Si era mezzo assopito su una poltrona dopo aver onorato il menu e soprattutto la cantina del ristorante. Sulla camicia chiazzata scivolava, come un boa constrictor con la scoliosi, una cravatta a pois che a malapena arrivava sul suo addome prominente. La parte anteriore ben più corta della posteriore, che invece penzolava libera lungo un fianco. Il nodo, allentato, ricordava uno scarafaggio sorpreso dietro uno scaffale e schiacciato con una ramazza.

E intanto il suo “mentore”, eletto con il suo voto e quello di tanti altri, stava beatamente amministrando perpetuando l’andazzo degli ultimi cinquant’anni, dall’alto dei suoi meritevoli favori, come quello di aver insegnato da par suo al mio amico come annodarsi la cravatta.


venerdì 16 ottobre 2015

Un calcio ai ricordi

Passando, osservo alcuni ragazzi seduti davanti al bar. E penso che dovrebbero capire che per ovviare alla crescente disoccupazione giovanile non è una buona soluzione diventare dipendenti dell’alcol, che non è mai stato un buon datore di lavoro. Forse i primi tempi. Ma la ripresa non c’è mai. Faccio questa pseudo battuta e mi viene in mente il calcio, la mia gioventù, ripenso a quei giochi da adolescenti, quando si stabilisce che chi vince può dare un bacio al più bello/bella della classe. Ma non tutti i ragazzi capivano le regole del gioco. Infatti, capitava che quando il bacio lo dovevano dare a me, toccava non a chi vinceva ma a chi perdeva. Che ridere!
Così pure quando si facevano le squadre per la partita di pallone. E questa storia la voglio raccontare. I due capitani facevano la conta, e sceglievano a uno a uno i propri compagni, partendo ovviamente dai migliori. Io ero sempre fra gli ultimi. Umiliante, ma da accettare perché in applicazione della più stringente meritocrazia, fosse sempre così. Non dovevi abbatterti, era uno stimolo, dovevi lavorare duro per non essere più l’ultima scelta. E io ci provavo, mi mettevo ore e ore a palleggiare (non è che palleggiassi così a lungo, per ore ma sempre un palleggio alla volta), insistevo, tenevo duro, mi dicevo che sarebbe successo finalmente che il capitano avrebbe scelto me, non dico prima di tutti ma almeno non proprio per ultimo.
Solo che le cose non miglioravano, anzi, se possibile peggiorarono. Sarà stata la metà degli anni ’80, le prime partite sul nuovo campo “Cretazzi”, all’epoca ristretto con le porte all’altezza delle aree di rigore, per un torneo di calcio a cinque. Solo che eravamo in undici. E, neanche a dirlo, dopo che erano stati scelti i primi cinque di ogni squadra, l’unico rimasto fuori ero io. A quel punto, perché il “dispari” giocasse comunque, interveniva una regola altamente democratica, quella del “tempo per uno”. Il soggetto superfluo diventava di colpo importante, perché la squadra con cui veniva schierato, sebbene per un solo tempo, giocava con l’uomo in più, quindi maggiori possibilità di coprire il campo, di avere un compagno sempre smarcato. Eppure non andò così, niente affatto.
Perché nonostante la superiorità numerica della squadra che mi schierava, il primo tempo finì invece tre a zero per la squadra con l’uomo in meno. Poi nell’intervallo il cambio di casacca e scesi in campo con quelli che stavano dominando. E che con me in più fra le loro fila, loro che stavano vincendo, persero la partita 4-3. Un capolavoro, una partita indimenticabile come quell’Italia–Germania mondiale del 1970 conclusasi con il medesimo risultato, e che mi costrinse a trarre le inevitabili conclusioni.
Da quel momento io e il calcio ci separammo consensualmente, rimanemmo amici, io presi in affido il divano e da quel momento da “sportivo” divenni appassionato davanti alla TV. Continuai a palleggiare, in gran segreto, nella mia cantina, e vi confesso che ci furono occasioni magiche in cui ne feci anche dieci, solo però se consideriamo validi i tocchi di ginocchio, di petto, spalla, muro e, non essendoci arbitri presenti, anche qualche fuggevole rimando di mano per non far cadere in terra il pallone.
Ci fu ancora qualche partitella uno contro uno a calcio-tennis, con le righe in terra tracciate con il carbone, contro qualche cuginetto di dieci anni più piccolo, dove strappai qualche pareggio, poi più niente, non potetti più provare quelle indimenticabili emozioni (perché anche quelle negative lo sono, e si dimenticano ben più difficilmente); ad esempio ricordo ancora a distanza di oltre trent’anni di quando capitavo in squadra con persone che non mi conoscevano e quindi all’inizio mi passavano fiduciose la palla, e io mi impegnavo pure a scartare l’avversario ma non ci riuscivo quasi mai, e allora i passaggi in mio favore si diradavano fino a cessare del tutto, allora chiamavo la palla a gran voce, ma non me la davano mai, e alla fine non avevo più neppure il coraggio di alzare il ditino mignolo e chiedere per piacere, tanto era inutile, a meno che in squadra non ci fosse qualche amico vero, che aveva compassione e allora me la passava comunque mentre tutti gli altri intorno, cercando di non essere visti si facevano la croce, e qualcuno più sfacciato, quando c’era in ballo la pizza, diceva apertamente al mio amico che se mi passava la palla la cena la pagava lui. Cose così, che segnano. Almeno segnano loro. Gli unici “gol” venuti da me in una partita.
E credetemi, per queste cose non c’è riscatto. Quando mi sfottevano, qualcuno che mi voleva bene li apostrofava: “voi saprete giocare a pallone, ma lui a scuola va meglio di tutti voi!”. Ma era peggio ancora! Perché io – e chiunque altro – avrei volentierissimo scambiato i miei inutili dieci sulla pagella con un dieci sulle spalle come Maradona, Baggio, Antognoni, D’Amico, gli idoli di allora! Tutto il resto della mia vita, gli hobby, i talenti, non valevano quanto il poter essere protagonista su un campetto.
Addirittura, in quegli anni di enormi ristrettezze economiche dei nostri genitori, non potendomi permettere un paio di scarpe bullonate per poter partecipare alle sfide sul campo in terra battuta (con le “Tepa sport” da ginnastica che usavano allora finiva lungo disteso al primo tentativo di calciare la palla), arrivai persino a barattare l’organo elettrico su cui avevo imparato a suonare, con un paio di Adidas usate, e pure di qualche numero in meno, ma coi così desiderati “tacchetti”! Chissà se le usai mai… Questo non lo ricordo più, che fossero ai miei piedi proprio in quella famigerata partita del 4-3? Forse si trattava di scarpe magiche, come nelle favole, stivali delle sette leghe, o meglio scarpine di Cenerentola, infatti mi dicevano che giocavo come una femminuccia (ma non era vero, tante ragazzine giocavano molto meglio, con più grinta e miglior tocco).
Comunque, già allora soffrivo di insonnia, e per addormentarmi avevo bisogno di pensare a “cose belle”, così suggeriva mia madre, e allora mi immaginavo al centro del campo, in serie A, osannato dagli spalti, e almeno nei sogni non avevo problemi a scartare gli avversari e infilare la palla nel sette col mio sinistro vellutato.
Poi gli anni passarono, e anche i sogni hanno una loro dignità, si devono nutrire di verità, se sono troppo incredibili ottieni l’effetto contrario, invece di rilassarti, ti incazzi ancor di più per quanto la tua vita sia in realtà totalmente diversa da loro. E allora, quando diventai troppo grande per potermi ancora immedesimare nei miei idoli che via via si erano ritirati per sopraggiunti limiti d’età, dovetti giocoforza cambiare soggetto alle mie sceneggiature oniriche. Il tempo era passato, misi una pietra sopra sul calcio giocato e iniziai a sognare di diventare cantautore. Scelsi Ligabue, stemmo sul palco per anni insieme, quasi tutte le notti, a scambiarci le canzoni, a duettare. Per un po’ dormii tranquillo, lì in realtà un po’ di talento in più rispetto al pallone l’avevo, ma neanche tanto, lo so. Infatti, Liga a Campovolo pure quest’anno ha fatto centocinquantamila spettatori paganti, mentre io ancora adesso la sera mi metto a suonare la chitarrina da solo, a casa, o davanti a mia figlia. Ma sentirla cantare prima di me i testi delle mie sconosciute canzoni mi riempie di gioia che non potete crederci, forse ancor di più di quando Luciano sente l’urlo della folla non appena arpeggia i primi accordi di “Certe notti”.

Magari uno di questi giorni io e lei proviamo pure due palleggi. Giusto due. Uno alla volta.