Non contava lo
stile, neppure se il contenuto fosse davvero interessante. Per la prima volta
si sperimentava il brivido di condividere quotidianamente i propri pensieri con
un numero indefinito di potenziali lettori. In pratica si lasciava su una
panchina il proprio diario segreto, con accanto la chiave del lucchetto. E il
brivido era anche dall’altra parte. Entravi nel parco della rete, dove trovavi
migliaia di panchine e altrettanti diari con le loro chiavi. Tu aprivi e
leggevi.
La differenza
coi social venuti poi era netta: facebook è un libro di facce, chi scrive sa
che sarà riconosciuto, chi legge sa chi è l’autore, manca il mistero. I bloggers
invece usavano quasi sempre dei nicknames, era parte del fascino.
Solo che anche
lì, come nella realtà, c’erano parchi famosi e ricchi di attrazioni e piccole
aiuole un po’ incolte e nascoste dietro un vicolo, dove non si passava quasi
mai. Anche lì c’era una panchina, ma non vi si sedeva nessuno a leggere.
Ricordo che
capitai sul blog di una giovane donna, o almeno questo si capiva dai suoi
scritti.
I suoi post erano piuttosto cupi, lo sfondo scuro, la grafica poco accattivante. Non aveva mai un commento e se ne lamentava, ma continuava a scrivere, ogni giorno, anche più volte. Nei suoi post si rivolgeva ai visitatori della pagina, evidentemente il contatore delle visualizzazioni le segnalava delle presenze. E come fossero davvero presenze, fantasmi, li trattava. Si sentiva medium, li evocava, “so che ci siete”, li pregava di apparire finalmente, di lasciare una traccia concreta.
I suoi post erano piuttosto cupi, lo sfondo scuro, la grafica poco accattivante. Non aveva mai un commento e se ne lamentava, ma continuava a scrivere, ogni giorno, anche più volte. Nei suoi post si rivolgeva ai visitatori della pagina, evidentemente il contatore delle visualizzazioni le segnalava delle presenze. E come fossero davvero presenze, fantasmi, li trattava. Si sentiva medium, li evocava, “so che ci siete”, li pregava di apparire finalmente, di lasciare una traccia concreta.
Detta così sembra anche
una trovata, ma non c’era la minima ironia, anzi. Leggendola mi destava imbarazzo,
come spesso fa la solitudine quando è esibita. Più volte fui tentato di
lasciare un commento, ma non lo feci mai sembrandomi un gesto compassionevole,
non di reale interesse, anche se in qualche modo ero attratto in quella
penombra e vi tornai spesso. Forse in quanto anche io presenza venivo evocato
senza possibilità di sottrarmi.
Poi il sentiero si richiuse, la
vegetazione lo nascose e me ne dimenticai.
Mi è tornato in mente oggi, mentre
pensavo di voler scrivere un post su questo blog ormai incolto e nascosto
dietro un vicolo.
A volte penso
che scrivere è come usare una tavola ouija. Non siamo a noi a scegliere le
lettere, le parole, ma le presenze che noi evochiamo quando le dita battono
sulla tastiera. Questo post potrebbe averlo scritto quella giovane donna di
vent’anni fa, rimasta prigioniera in quell’angolo ombroso, per chiedermi di
liberarla ricordandola.
Ma io non credo
ai fantasmi, sono sempre trucchi. La tavoletta non si muove da sola sulle
lettere, sono le dita del medium a sceglierle fingendo di parlare con la voce
degli spiriti.
Il post l’ho scritto io. Seduto nell’ombra.