Diversi anni fa
stavo conducendo una ricerca genealogica commissionatami da una famiglia del
luogo, quando mi imbattei in un vero e proprio mistero, del quale non avevo
finora avuto il coraggio di scrivere.
Dopo aver
studiato i registri all’Archivio di Stato ero passato ad analizzare quelli parrocchiali,
e fu lì che venne fuori la prima incongruenza, da cui prese le mosse quanto
accadde più tardi.
Fino al 1806
gli atti di morte indicavano la tumulazione avvenuta nella chiesa. Nel livello
sottostante al sagrato vi erano ampie sale nelle quali da secoli venivano
deposte le salme tanto che pur essendo trascorsi più di due secoli, ancora gli anziani
chiamano ’o cimmitèrio l’angolo sul
lato sud dal quale si accedeva a quei locali, successivamente interrati.
A partire da
quell’anno l’editto napoleonico di Saint-Cloud, per ragioni di igiene, aveva
disposto che le sepolture avvenissero in aree appositamente individuate
all’esterno del centro abitato, ad almeno un miglio. Da allora, infatti, i
registri non riportavano più la tumulazione in chiesa ma in un “camposanto”.
Sulle prime la
cosa non mi colpì affatto, sapevo benissimo dove si trova il cimitero, nei
pressi della Cappella della Madonna del Carmine che è, appunto, ad un
chilometro esatto dalla piazza del paese, e non avevo motivo di dubitare che il
riferimento al “camposanto” fosse proprio a quel terreno.
Però a partire
dalla fine del 1817 veniva indicata di nuovo la tumulazione dei cadaveri in
chiesa, e solo dal 1840 si parlava di nuovo di sepoltura nel camposanto.
Cos’era
successo? Per quale ragione il cimitero non era stato più utilizzato per oltre
vent’anni? La cosa mi incuriosì, tanto che provai a trovare una spiegazione su
alcuni testi e in primis su una dettagliata Storia del nostro paese pubblicata proprio
in quel periodo. Lì vi era soltanto qualche riferimento alla questione e
piuttosto che chiarire i miei dubbi ne apriva altri. Vi si leggeva che l’amministrazione
comunale nel 1817 aveva deliberato all’unanimità la realizzazione di un nuovo
cimitero, ma per le resistenze della popolazione che preferiva che i propri
cari fossero sepolti in chiesa i lavori erano proseguiti a rilento per essere
terminati soltanto nel 1840. Si parlava espressamente di quello che esiste
tuttora, adiacente alla Cappella, anch’essa riedificata proprio in quegli anni
sulle fondamenta di un piccolo edificio sacro precedente, da tempo diruto. La
vulgata popolare riferiva di una visione della Vergine apparsa ad una “pia
donna del luogo” per sollecitare la ricostruzione della chiesa e del cimitero proprio
in quel punto esatto.
Cosa non
tornava, allora? Il vuoto di un decennio, fra il 1806 e il 1817, in cui le
sepolture non avvenivano più in chiesa ma in un “camposanto” che però non
poteva essere quello attuale, finito nel 1840.
C’era stato per
un breve periodo un altro cimitero? E dove? I libri non mi fornivano altre
informazioni e interrogati alcuni anziani alla mia richiesta sembravano cadere
dalle nuvole, era come se fossi stato il primo dopo due secoli ad accorgermene.
Per un poco non
ci pensai più, e tornai al lavoro sui registri. Ero arrivato appunto a quel
fatidico 1817. Fino ad allora le ricerche genealogiche erano state agevoli,
perché ogni anno non morivano che una ventina di persona al massimo, per cui si
trattava di sfogliare appena qualche pagina per individuare il nominativo che
mi interessava. Rimasi alquanto sorpreso nel notare che, invece, in quell’anno
i morti erano stati oltre centocinquanta. In un paese che all’epoca contava appena
800 anime stava a significare che quasi un quinto della popolazione aveva perso
la vita. La ragione? Anche quella storicamente nota e documentata, come potetti
approfondire più tardi. Un’epidemia definita di tifo petecchiale che proprio nel 1817 raggiunse la sua massima
diffusione in tutta Italia, e anche nel nostro territorio, complici le pessime
condizioni igieniche, falcidiò una fetta consistente della popolazione.
Si era trattato
di una vera e propria pestilenza dalla quale era stato improbo provare a
salvarsi, la triste riprova era proprio la morte del parroco, annotata nei
registri. Quello stesso che aveva diligentemente preso nota del continuo
trapasso dei suoi concittadini ed aveva prestato loro indefessamente i conforti
religiosi in articulo mortis,
evidentemente era stato contagiato. La pagina successiva infatti, era compilata
con grafia differente da quella di tutti gli altri certificati; era quella di
un altro sacerdote, e riportava infatti proprio la morte del povero prete.
Avevo letto i
resoconti delle varie epidemie di peste del seicento, dalla Morte Nera
veneziana alle pagine immortali del Manzoni sul contagio a Milano, e conoscevo
bene come all’addensarsi delle nubi della diffusione del morbo corrispondesse
l’immane sconforto delle popolazioni, del tutto ignare delle cause (attribuite
ad una punizione divina) e ancor di più sulle condotte di prevenzione, anche le
più elementari.
Immaginavo che,
pur non trattandosi propriamente del morbo della peste, un’analoga atmosfera da
girone dantesco fosse calata anche sul nostro piccolo centro in quel famigerato
1817, in cui ogni famiglia ebbe uno o più lutti e tutte furono preda del
contagio e della disperazione più profonda.
Da un saggio
del dott. G. Palloni, “Commentario sul morbo petecchiale”, pubblicato nel 1819,
ero venuto a conoscenza di alcuni dettagli che avevano acuito la mia
impressione di un evento vissuto come una vera e propria calamità naturale
dalla popolazione, del tutto impotente di fronte ad un morbo dalla diffusione
così virulenta e che si presentava in maniera così orrenda e dagli esiti quasi
sempre mortali.
Si trattava di
una serie di “sconcerti del sistema gastrico e nervoso” (così li definiva
l’autore) accompagnati ben presto da una febbre maligna e violentissima in uno
alla quale apparivano sul corpo degli esantemi (le “petecchie”) che portavano nel
giro di due-tre giorni ad una diffusa e profonda desquamazione per cui il
malato, nella fase terminale, appariva come se migliaia di uncini gli avessero
lacerato le carni e fosse stato poi lasciato essiccare al sole. Anche le
interiora, visionate in sede autoptica, presentavano un elevatissimo grado di
putrescenza tanto che appariva quasi impossibile distinguere i singoli organi
in quella “poltiglia putrida”. La percentuale di mortalità era vicina al settanta
per cento.
L’autore poi si
diffondeva nel descrivere con dovizia di particolari macabri i vari casi, e io
– forse per quella ricerca genealogica che mi aveva fatto sentire “vicino”,
quasi conoscente di quei miei antichi compaesani – non ebbi la forza di
continuare nella lettura di quelle tristi pagine. Tornai alla mia ricerca fatta
di soli nomi e date e per un poco me ne dimenticai. Fu invece un altro strano
episodio che mi fece poi tornare in mente la storia della malattia e di quel
cimitero “dimenticato”.
Ero stato
avvicinato, in quelle settimane, da un anziano studioso di storia locale, il
quale coglieva spesso l’occasione per narrarmi una serie di aneddoti sulle
vicende passate, delle quali era appassionato. Per lo più storie minuscole di
uomini delle cui gesta non esistevano carte scritte ma soltanto una fervida tradizione
orale che, nel continuo tramandare di bocca in bocca aveva probabilmente
lasciato quel poco di verità che restava fra le maglie del ricordo per
restituire soltanto racconti di pura fantasia. E però amavo ascoltarle, quelle
storie, come quel giorno davanti ad un gelato, al tavolino di un bar della
piazza posto strategicamente all’incrocio delle correnti per trovare un po’ di
refrigerio dalla calura di quell’estate.
Vi dico subito
che anche a lui avevo chiesto notizie del cimitero scomparso e non avevo avuto
risposte soddisfacenti. Così mi sorprese molto ascoltare il racconto degli
straordinari poteri di Teresa Gatto, “Trèsa ‘a hatta”, come veniva chiamata in
dialetto. Non di rado i suoi “cunti” presentavano elementi soprannaturali,
circostanza così comune nelle narrazioni popolari che piuttosto che inquietarmi
aveva sempre l’effetto di divertirmi, rimandandomi a quelle storielle attorno
al fuoco di quando eravamo piccoli, con le quali i nonni ci regalavano un
piccolo brivido come ricompensa per avere”fatto i bravi”, o aver aiutato i
genitori o finito tutta la carne. Ma ascoltare la storia della “Gatta” fu ben
diverso, come sentirete.
Teresa parlava
con i morti. E sfruttava questa sua capacità, lei che era sola e nullatenente,
per chiedere ed ottenere cospicue elemosine in cambio di un messaggio
dall’aldilà. Fosse capacità di immedesimazione psicologica o vero e proprio
potere, fatto sta che le parole che lei riferiva esserle state dette dai
defunti erano sempre così apprezzate dai suoi compaesani che, vuoi per
convinzione, per scaramanzia (non si sa mai!) o per pura benevolenza, non le
facevano mai mancare la carità.
Il fatto che mi
narrò il Professore (così lo chiamavano tutti) doveva essere accaduto nella
seconda metà dell’ottocento. Mi raccontò che Teresa, nel suo consueto giro per
le case, s’imbatté in una vedova che invece l’accusò di approfittare delle
disgrazie altrui. Per convincerla, Teresa provò a farle il nome del marito,
dicendole che si era lamentato dall’oltretomba di non avere avuto mai in tanti
anni una messa in suffragio, e la donna allora – forse punta sul vivo? - la
cacciò via in malo modo, facendola finire con una spinta violenta lunga e
distesa sul selciato. Teresa, che pure aveva già una certa età ed era esile
esile, ma agile proprio come una Gatta, si rialzò rapidamente come se non fosse
successo niente, e mentre si ripuliva il grembiule dalla polvere guardò intensamente
la donna – che nel frattempo era rimasta in piedi sulla soglia, a busto eretto
e con le mani sui fianchi, soddisfatta del suo gesto – con un sorriso beffardo.
Quindi le disse lentamente, quasi sussurrando: “verrà un giorno in cui mi
pregherai di accettare la tua elemosina”.
Passò qualche
tempo e una notte la donna, che si chiamava Carmela e viveva in una zona appena
fuori paese, chiamata le Logge, fu svegliata da strani rumori, un misto di voci
sussurrate e passi pesanti. Pensò subito ai briganti, che a quel tempo
infestavano le campagne e non di rado si spingevano a razziare anche i paesi.
Lei era una donna sola, e aveva una dispensa ben fornita, un ottimo obiettivo.
Subito balzò dal letto, scese le scale e si rifugiò in cantina, si accosciò fra
i sacchi pieni di ogni ben di dio, tutti cifrati con le proprie iniziali, e si
mise a spiare fra le assi dello steccato. Quel che vide non furono i briganti
ma qualcosa che la lasciò ancora più stupita. Lungo la via di campagna che
costeggiava la casa e proseguiva verso il fiume stava passando una processione,
sentiva le preghiere mormorate e vedeva una folla piuttosto numerosa percorrere
il sentiero. L’abitazione era posta a un livello più basso rispetto alla
strada, di modo che lei, da dove si trovava, non riusciva a vedere le facce, ma
notò che tutti i fedeli avevano qualcosa di lucente, una candela, forse, o una
piccola fiaccola, proprio come nella via crucis del venerdì santo. Solo che era
l’inizio di novembre, la pasqua era lontana. Non riusciva a raccapezzarsi, le
processioni non passavano mai per le Logge. La zona dove lei abitava era del
tutto estranea al tragitto consueto che partiva dalla chiesa e solcava il
centro abitato. La via che passava da casa sua partiva, sì, dalla Chiesa, ma
conduceva soltanto al fiume. E… al cimitero!
Carmela
rabbrividì per un attimo, capace che si trattasse di un funerale? Ma un corteo
funebre di notte non si era mai visto, il defunto veniva vegliato fino all’alba
e solo con la luce del sole accompagnato all’estrema dimora. Era una donna
coraggiosa, e ancor di più curiosa, non resistette al dubbio e uscì fuori, fino
al vialetto. Effettivamente si trattava proprio di un accompagnamento, davanti
al popolo procedeva il catafalco su ruote, trainato da due cavalli neri. Ma chi
era morto? Non aveva sentito suonare le campane…
Superò la fila
che procedeva lentamente e dopo una curva incrociò frontalmente il corteo. Le
prime persone erano di solito i familiari del defunto, avrebbe così compreso di
chi si trattava. Le osservò con attenzione, ma non le riconobbe. Eppure nel
paese conosceva tutti. Volse lo sguardo verso le file più dietro, e neppure lì
conosceva nessuno, o meglio, alcuni a prima vista sembravano dei paesani ma
poi, guardando meglio, erano solo delle somiglianze. Strano. Possibile che
fossero venuti da un altro paese vicino a fare un funerale lì? E di notte, poi?
Mah. Forse avevano altre usanze.
Mentre il
catafalco era giunto a pochi metri da lei, si era quasi tranquillizzata e se ne
stava tornando a letto, allorché notò che le luci che quelle persone portavano con
sé non erano candele o lumini, anzi sembrava quasi che la fiamma sgorgasse
direttamente dalle loro mani, dal pollice teso. E i loro sguardi… non c’era
tristezza o pena, erano occhi vacui, spenti. Ebbe allora un attimo di
smarrimento, ma non riuscì neppure a ragionare sull’assurdità di quanto aveva
visto che la bara giunse accanto a lei e, contrariamente ad ogni consuetudine o
logica, era aperta.
Invece di
correre via, come forse a quel punto sarebbe stato sensato, se ne sentì
irresistibilmente attratta, non resistette alla stolida curiosità di guardare
il cadavere. E allora accadde che fra le cento e più di facce apparentemente
sconosciuti osservate sino ad allora, apparve ai suoi occhi un volto ben noto.
Il morto nella bara era suo marito. Non c’era dubbio. Lo ricordava bene. Sembrava
fosse stato appena composto, e che non fossero passati più di trent’anni.
Fu colta dal
panico. Era morto nell’epidemia di tifo petecchiale che aveva decimato il
paese, eppure ora era lì, ancora integro sebbene provato dalla malattia,
sembrava quasi che dormisse, sembrava che potesse da un istante all’altro
aprire gli occhi e parlarle. E infatti fu così. Mentre lei era ancora lì
stupefatta a guardarlo, sbarrò di colpo le pupille e si levò a sedere. Il
corteo, come ad un comando inconscio, si fermò, smisero persino di biascicare
preghiere. I cavalli si arrestarono anch’essi, emettendo fumo bianco dalle
froge. Carmela era paralizzata dal terrore. Il marito aprì la bocca per parlare
ma invece di emettere dei suoni articolati produsse un lamento intenso e straziante
che partì da una nota bassa per arrivare rapidamente ad una tonalità così alta e
stridente che la costrinse a tapparsi le orecchie. Tutti i presenti invece
rimasero all’inizio impassibili, come se tutto ciò fosse perfettamente normale,
poi pian piano iniziarono anche loro ad emettere un lamento, dapprima tenue e
poi sempre più forte fino ad essere all’unisono con quello del marito.
Le gambe le
cedettero, e si accasciò sulle ginocchia. Il marito dall’interno della bara
tese le braccia verso di lei, con le mani come artigli pronti a ghermirla in un
abbraccio mortale, continuando a soffiare quel macabro suono. A Carmela quel
rantolo non era sconosciuto, era quello terribile che lo sventurato emetteva
negli attimi terminali di quell’infernale contagio che l’aveva condotto a
morte. E ora come allora lei non poteva fare altro che attendere che finisse.
Per la verità, tanti
anni prima lei non si era limitata ad attendere ma alla fine non ne aveva
potuto più e quando sembrava fosse ormai prossimo a spirare l’aveva aiutato
soffocandolo con un cuscino. E non era stato facile come poteva sembrare,
perché sebbene la malattia nel giro di pochi giorni l’avesse completamente
consumato, aveva mostrato in quell’occasione una inattesa vitalità. Sembrava
morto, se non fosse stato per quel lamento infinito, eppure quando gli aveva
calcato sulla faccia il cuscino aveva iniziato a dibattersi, a scalciare, e lei
che non era pronta a quella reazione non aveva avuto lucidità di prendere la
decisione più semplice, cioè farlo respirare e attendere che la natura facesse
il suo corso ma aveva insistito, con tutta la sua forza, calandoglisi
addirittura addosso con tutto il suo peso, fino a quando, dopo una strenua
lotta, era infine spirato. Lei poi era fuggita via, aveva chiamato altri
parenti che, senza sospettare nulla avevano provveduto a comporre la salma, mentre
Carmela non aveva neppure partecipato al funerale né aveva voluto più ricordare
quel momento, rifiutandosi pure di far dire delle messe in suffragio, che le
sembravano una blasfemia, dovendo venire da lei che era stata la sua assassina.
Nel
ripercorrere quegli istanti le sovvenne quanto le aveva detto quel giorno la
Gatta. E come per magia, alzò gli occhi e a capo di quel corteo di facce - che prima
sembravano ignote ma che ora a guardarle meglio… le ricordavano suoi compaesani
morti da tanti e tanti anni, sebbene più magri, sofferenti, quasi consunti e
iniziavano a dirigersi verso di lei con fare quasi minaccioso - c’era proprio quella
di Teresa, che sogghignava e annuiva con forza.
“Aiutami!!”, la
implorò Carmela. Ma quella non se ne diede per inteso e continuò a procedere
verso di lei insieme a quell’orda di… come definirli? Morti viventi, diremmo
ora, zombie? Fatto sta che di certo non avevano più molto di umano. Carmela
corse verso casa, entrò in cantina ed afferrò un sacco pieno di farina, quindi
uscì di nuovo e lo protese verso Teresa. “Accetta la mia elemosina, te ne
prego, e manda via questi… questa gente!”.
Mentre pronunciava queste parole, si girò vero il catafalco. Il busto del
marito, seduto, emergeva ancora dalla bara e si dimenava goffamente a braccia
tese e con la testa penzoloni.
Teresa allora fece
un cenno e il gruppo si fermò. Si avvicinò lei sola a Carmela, prese il sacco,
la ringraziò e si riunì alla processione che come se nulla fosse stato riprese rapidamente
il proprio cammino sparendo dietro alla curva. Dopo qualche secondo non si
sentì più niente, né passi, né preghiere e tantomeno lamenti, tanto che si
ritrovò a pensare fosse stato solo un incubo.
Ma qualche
giorno più tardi ricevette una nuova visita della Gatta, e questa volta non l’accolse
con disprezzo ma con rispetto. Le offrì subito l’elemosina, ma quella rispose
che era lei a doverle qualcosa. Estrasse dalla tasca del grembiule un telo
arrotolato, glielo porse. Era il sacco in cui era contenuta la farina che le
aveva donato, riconobbe subito le iniziali ricamate. Non era stato un sogno,
non c’erano più dubbi. E quando Teresa disse quel che seguì, ogni titubanza
sparì del tutto.
“L’elemosina
che chiedo, è vero, serve a me per vivere. Ma loro vogliono che io viva per
poter raccontare ai loro cari come stanno, di cosa hanno bisogno. E quando io
ho queste esperienze sono così stancanti che per giorni sono distrutta e non posso
lavorare e guadagnarmi da vivere diversamente. Io servo a loro e loro servono a
me. Tuo marito…” Carmela ebbe un sussulto. “Tuo marito comprese quel che gli
facesti, capì la ragione, non volevi commettere un omicidio, fu solo pietà. Non
sentirti in colpa, fai pace con te stessa e con la sua memoria. E fagli dire
una messa ogni tanto, servono a farli sentire meno soli, dove si trovano”.
“Ma perché
volevano aggredirmi?”, chiese Carmela.
“Non volevano
aggredirti, volevano semplicemente… toccarti. Hanno una forte nostalgia delle
persone, della vita, appena vedono un uomo, una donna, vogliono avvicinarsi,
bramano ancora un alito di vitalità. Solo che non riescono più a parlare, li
capisco soltanto io e pochi altri come me…”.
“Ma possono
vederli tutti?”, la incalzò.
“Non tutti,
anzi sono rari quelli che ci riescono. A te non capiterà più, a meno che ci sia
una ragione davvero importante. In questo caso c’era, te l’ho spiegato. Erano tutti
morti di tifo nelle condizioni di tuo marito, vagano nella notte accompagnandosi
a vicenda ma è come se avessero perso la strada, cercano la pace eterna ma ancora
non la trovano. Per il fatto che sai, che sappiamo tutti noi del paese, anche
se fingiamo di avere dimenticato. Ma i morti lo sanno meglio di noi che il sale
sulle ferite non le guarisce, anzi le infiamma ancora di più… E non c’è acqua
bastevole a spegnere quel fuoco che brucia da trent’anni”.
Il professore
s’interruppe. Disse che l’anziano che gli aveva riportato il racconto tanti
anni prima si era fermato a quel punto, come se non avesse avuto il coraggio di
continuare, come se si fosse trattato di qualcosa troppo difficile da narrare
sebbene a distanza di oltre un secolo. Forse, aveva sospettato, perché
anch’essi erano stati aiutati a morire da qualche parente, e il vecchietto non
aveva voluto raccontargli tutto perché magari i familiari erano ancora in vita e
sembrava come fare la spia o un oltraggio alla memoria.
Mi disse anche
un’altra cosa. Che la storia di Teresa e Carmela non era l’unica del genere che
si raccontava in paese. Ce n’erano molte altre che avevano ad oggetto messe e
processioni di defunti, non così dettagliate come queste, ma che avevano in
comune la faticosa ricerca di pace da parte dei morti, inquietante anche il
racconto della donna sepolta viva in chiesa, trovata dopo tempo alzata dalla
bara, con il lenzuolo arrotolato in testa, far leva col cranio sulla botola che
chiudeva la tomba, senza riuscire però ad aprirla. Si trattava, lo so bene,
della classica trama delle storie dei fantasmi, ma aggiunse un particolare:
erano state frequenti fino all’inizio degli anni ’70 del ‘900, alcuni ancora in
vita giuravano di esserne stati testimoni oculari, e poi di colpo erano finite.
Si erano come “spente”. Fu questa la parola che usò.
La sera
ripensai a quel racconto, e qualcosa non mi tornava. Mi sembrava che mi fosse
sfuggito un particolare importante, che non avevo messo bene a fuoco. Mi
rituffai nelle mie carte, l’albero genealogico dei miei clienti era ormai
pressoché completo. A margine ancora era rimasto un asterisco a ricordami la
questione del cimitero “scomparso” nel 1817. Un anno fatale, per la comunità,
dal quale erano scaturite conseguenze che avevano permeato addirittura i
racconti di fantasia, come quello di Teresa Gatto.
Ma era stata
davvero una fantasia? E se era così, non c’era un fondo di verità, come in
tutte le storie? Cosa avevano omesso di raccontare al Professore? Perché le
anime dei morti di tifo non trovavano pace, secondo il racconto? Era
inverosimile che fossero tutti stati oggetto, come diremmo ora, di “eutanasia”,
la ragione doveva di sicuro essere un’altra. Ma quale? Poi fra le mille domande
che affollavano la mia mente se ne affacciò repentina un’altra, la più
inquietante. Dov’erano stati sepolti tutti i morti dell’epidemia se solo alla
fine del 1817 il Comune avviò le pratiche del nuovo cimitero e si riprese a
seppellire in chiesa? Evidentemente proprio nel “camposanto” di cui non c’era
più memoria! Forse iniziavo a capire… Mi immersi di nuovo nella lettura del
commentario del 1819, al capitolo in cui si descrivevano particolari
caratteristiche del decorso della malattia in alcuni casi…
Poi ripresi il
libro con la storia del paese, il nostro terreno ricco di acqua e solcato da
diversi fiumi era stato sin dall’epoca preistorica teatro di numerosi
insediamenti umani, ve n’erano notevoli testimonianze proprio nella zona del
fiume.
Ormai si era
fatta notte. Ma non era tempo di dormire, era il momento di capire, altrimenti
neppure io avrei mai trovato pace. Andai a casa del Professore, lo trovai a
letto ma lo convinsi ad alzarsi. Gli raccontai quanto avevo scoperto, gli
prospettai una mia intuizione e lui, stupito, la confermò.
Insieme ci
avviammo a piedi per la via delle Logge, ancora la stessa di allora, sebbene
asfaltata e costeggiata di numerose abitazioni, io stesso ne possiedo una. Dopo
circa un chilometro giungemmo fino alla Cappella ed al nuovo cimitero, ma invece
di salire il viottolo che porta all’ingresso, proseguimmo verso sinistra, lungo
un sentiero laterale, fino a quando, bianca ed enorme come la chiglia di un
transatlantico o la pancia di una balena, si erse di fronte a noi la muraglia
enorme della Diga, che sorregge le tonnellate di acqua frutto dell’invaso sul
fiume costruito negli anni ’70. Gli scavi per la sua realizzazione erano stati
imponenti, e nel corso degli stessi erano stati rinvenuti numerosi reperti
dell’epoca neolitica, utensili, armi, selci lavorate, gioielli rudimentali e…
ossa, tombe antiche.
Era lì sotto?
Mi chiese il professore. Risposi di sì, ne ero convinto. Il primo camposanto
era stato creato nel 1806 in quello spiazzo pianeggiante ora coperto di acqua. In
quell’area dove nel corso dei millenni l’uomo si era spesso insediato, e dove
aveva seppellito i propri defunti. Che fosse stata memoria storica oppure un
ancestrale richiamo, quando era stato necessario spostare il cimitero dalla
chiesa ad un terreno esterno al paese, si era scelto quel posto. E per i primi
anni tutto era andato bene. Fino a quel maledetto 1817. Quando le morti si
susseguivano senza sosta e per stanchezza, terrore e paura del contagio non
c’era neppure tempo di aspettare le ventiquattr’ore canoniche prima della
sepoltura. E allora era capitato che, complici le particolari conseguenze del
morbo, che provocava una sorta di morte apparente nel malato che invece
conservava ancora un residuo di forza, molti di coloro che erano stati
seppelliti alla bell’e meglio sotto pochi centimetri di terra e avvolti nei
soli sudari, si erano alzati dalle fosse ed erano stati ritrovati anche ad una
certa distanza. Magari addirittura qualche “risveglio” era avvenuto in presenza
di qualcuno e allora…
Allora –
continuò il professore – la popolazione già provata dagli eventi aveva
ritenuto, in preda alla suggestione, che quel campo fosse maledetto, ed aveva
ripreso a portare i morti in chiesa. Dove magari si erano comunque risvegliati
– vedi la storia della donna – ma ormai l’epidemia era in netto calo alla fine
del 1817, e non era più accaduto con quella frequenza terrorizzante. Così il Comune
aveva deliberato di costruire il nuovo cimitero in altro posto, e il
provvidenziale sogno di una “pia donna” aveva suggerito l’area accanto ai
ruderi della vecchia Cappella, all’ombra della protezione benevola della
Madonna. Dove, difatti, non era mai più successo niente del genere! Logico,
visto che non c’era più il tifo, ma significativo per l’indole superstiziosa
dell’epoca.
Del vecchio
camposanto nessuno aveva voluto più sapere nulla, capace che vi fosse stato
sparso anche del sale, come una damnatio
memoriae di epoca romana, e fosse stato vietato addirittura parlarne. Ma
nell’inconscio di molti era rimasto il dramma dei propri familiari rimasti
sepolti lì, che veniva vissuto come un oltraggio alla loro memoria di anime
senza pace. Pensiero auto colpevolizzante che aveva sicuramente fatto scaturire
i racconti e le leggende, come quella di Teresa la Gatta.
Poi era stata
costruita la Diga, e ormai tutto era al sicuro sotto un mare d’acqua dolce.
Che aveva
finalmente spento quella ferita, lavato via il sale. Non se ne sarebbe parlato
più. Solo noi sciocchi appassionati di storia e misteri avevamo voluto
ripercorrere quell’antica storia. Giurammo di tenerla per noi, e così è stato
per tutti questi anni, il professore purtroppo non c’è più e neppure io avevo
avuto occasione di ripensarci. Fino a quando, in questa notte inquieta di primo
autunno, mentre non riuscivo a prendere sonno per il caldo e la siccità che
dura da mesi, che sono esaurite perfino le riserve idriche della Diga, ho sentito dei passi pesanti e dei sussurri lamentosi e strazianti
per la via che costeggia la mia abitazione, qui alle Logge...