I.
Peppo uscì in piazza come ogni mattina. La giornata era livida, fredda. Una fine di settembre che di estate non aveva ormai più nulla. Si fermò davanti alla casa dei Bruno a sistemarsi gli auricolari e nel frattempo diede un’occhiata in giro. La solita desolazione. Tre-quattro vecchie mummie sulle panchine davanti al municipio. Un paio di tavolini del bar occupati da giocatori di scopa. Scelse una canzone della quale non conosceva il titolo e neppure il cantante, mise il volume a palla e si incamminò verso la fontana al centro della piazza. La siccità estiva aveva lasciato in eredità un rubinetto chiuso e una vasca vuota. Girò la manopola, aspettò che si dissolvessero ruggine e cloro, poi mise le mani a conca e si sciacquò con vigore la faccia, scuotendola rapidamente ed emettendo spruzzi come una foca che ha appena catturato un salmone. Si passò gli avambracci sul volto per asciugarlo alla meglio, mentre i bassi continuavano a pompare nei timpani annacquati, e si diresse, secondo il percorso quotidiano prestabilito, ai cessi pubblici, dai quali uscì poco dopo, visibilmente soddisfatto. La giornata poteva cominciare.
Un ragazzo lo chiamò dall’angolo della macelleria, ué Pè, vieni ccà, ma lui non se ne diede per inteso, probabilmente non lo sentì affatto o così volle far sembrare. Si appoggiò in piedi con le spalle al comune, una gamba dritta e l’altra piegata all’indietro contro il muro, e si mise ad armeggiare con il cellulare. Si era creato a fatica un profilo facebook: tutte quelle domande per l’iscrizione lo avevano messo quasi K.O., fino a quando aveva deciso di utilizzare una strategia buona per ogni occasione: rispondere sempre di no. Città di residenza: NO. Studi: NO. Preferenze sessuali: NO. Libri preferiti: NO. Solo alla domanda “musica preferita” si era un attimo ingrippato, perché in mezzo a quelle danze tribali che ascoltava incessantemente per far finta di non sentire, una canzone che gli piaceva c’era sul serio, ma non aveva mai capito come s’intitolasse: era roba inglese e lui quando alle medie c’era inglese aveva sempre risposto NO. Si salvò premendo il tasto “avanti”, e il profilo fu pronto. Mancava solo la fotografia. Foto sue non ne aveva, non era certo il caso di chiedere a qualcuno di scattargliene, e il concetto di selfie gli era del tutto ignoto, allora ne mise una del suo cavallo.
Mentre provava a visualizzare le notifiche con un pollice ipertrofico buono a cliccare contemporaneamente “invia”, “mi piace” e “arresta il sistema”, un cane gli si avvicinò, distratto, seguendo a muso chino sul terreno chissà quale traccia; quando si accorse che si trattava di Peppo trasalì, emise un guaito disperato e fuggì di corsa. Lo seguì con lo sguardo sparire dietro l’angolo della casa di Natalino, e annuì, fiero, sorridendo sotto i folti baffi. Come il selfie, gli erano ovviamente estranei anche i più elementari concetti di psicologia ed etologia animale; ma non dubitava affatto che essi potessero comunicare tra di loro e che la ragione per cui qualsiasi cane, non appena lo vedeva, fuggiva spaventato, andasse ricercata nel fatto che, in quella specie, si era “sparsa la voce”.
Come per i gemelli laziali Romolo e Remo, di cui la leggenda narra fossero allattati da una lupa, anche per i gemelli campani Peppo e Aniello esiste una mitologia fondativa basata su due bambini e un animale, in questo caso un canide. Secondo questa narrazione, i due, in vena di esperimenti, avevano deciso di trasformare un bastardino in cane bassotto, semplicemente accorciandogli le zampe con un’accetta. E’ impossibile trovare riscontri concreti, ma come per tutte le leggende, un fondo di verità doveva esserci, a giustificare non solo il diffondersi di questo aneddoto per il paese, ma anche il terrore puro manifestato, più volte, da quegli animali alla presenza di Peppo e del suo eterozigotico germano Aniello, ancora oggi che sono passati forse trent’anni e almeno tre generazioni di cani.
Una réfola fredda strisciò da dietro la strétta, un vecchio infilò le braccia nella giacca che fino ad allora teneva solo appoggiata sulle spalle. I due al tavolino davanti al bar rientrarono, quasi sospinti indietro dal vento. Peppo con uno sforzo intenso riuscì finalmente a premere il tasto delle notifiche, e i forti bicipiti guizzarono, a malapena coperti dalla maglietta sottile a maniche corte, indifferente a qualsiasi cambiamento climatico, anzi conferma evidente del riscaldamento globale. Non era un messaggio o un mi piace, solo un invito a Candy Crush Saga. Peppo si strusciò il pizzetto fra pollice e indice, indeciso se accettare. Poi tornò su strade consuete, sicure. Cercò un tasto che non c’era, e allora lo disse a voce alta, NO. I vecchi sulla panchina si girarono a guardarlo senza intenzione, quasi per un movimento riflesso, poi continuarono a lasciar scorrere in silenzio il loro conto alla rovescia.