Nicola rovistava sotto la scala. Tirò fuori un paio di
scarpe da ginnastica malandate. Tolse quelle buone e le calzò. Era pronto per
la partita. Minicantonio disse: “bella pensata, così mamma non mi rompe il cazzo”,
e si levò pure lui i mocassini già consumati, dai quali emersero calzettoni
strappati agli alluci. Altre non ne aveva, ma non sembrò interessargli. Afferrò
il supersantos e si mise a scartare avversari invisibili.
Facemmo le squadre, i capitani indicarono i propri compagni,
a cinque contro quattro qualcuno doveva fare un tempo per parte. Toccò a me:
l’ultimo scelto, quindi il più scarso. Pensai di andarmene, c’ero rimasto troppo
male che mi avessero preferito Liscio, che secondo me era lui la vera pippa. Ma
avevo scarpe da ginnastica nuove e volevo giocare. Facemmo prima qualche tiro,
e provammo le punizioni. “Con quelle, puoi dare un bell’effetto”, e mi
guardavano con invidia, ma io non ci riuscii, mi venne fuori un colpo dritto
che il portiere bloccò facilmente. Minicantonio parlava sottovoce ad un
compagno, e mi parve di sentire i suoi pensieri: “perché lui deve avere quelle
belle scarpe, e io che sono un campione gioco scalzo?”.
Gli mollai uno schiaffo.
“Guarda che non t’ho sfottuto, stavo dicendo un’altra cosa”,
si teneva la guancia. Gli altri si misero intorno, a cerchio, come in un
anfiteatro, sentivano l’odore del combattimento, del sangue. Ero più alto, più
grosso. Non mi feci pregare, e gli diedi una spinta. Lui allora caricò a testa
bassa, ma mi scansai e quando fu passato gli sferrai un calcione nel culo che
finì lungo disteso. Qualcuno rise. Non gli diedi tempo di alzarsi e gli fui
addosso. Lo tenevo fermo e gli bloccavo i polsi. Dopo un po’ si arrese. Nicola
si avvicinò, cauto: “ma che t’aveva detto?”. “Non so’ cazzi tuoi”, risposi. Si
fecero di nuovo intorno. C’era silenzio.
“Non sono io il più scarso!” urlai. “E’ Liscio!”.
Liscio, innocente eppure colpevole, uggiolò, come un cane
bastonato.
Ancora furioso, presi il pallone e lo scagliai verso il muro
della scuola, ma lo svirgolai e frantumai la finestra della quarta. Si sentì un
fischio. Era la guardia. Se ci beccava ce la faceva pagare. Nel fuggire, Minicantonio,
ancora scalzo, si ferì sui vetri rotti. Non fosse stato per quelle scarpe di
merda, non sarebbe successo niente, ecco la verità. Me le tolsi e gliele
lanciai: “Secondo me ti vanno bene”.
“E tu come fai?”
“Me ne fotto”.
Tenetevi le scarpe, e tenetevi pure Liscio. Vaffanculo.
Ma la prossima volta le squadre le faccio io.