La stazione ferroviaria. Con l’ansia di partire.
La sala d’attesa di uno specialista. Con l’ansia di sapere.
Un corso di formazione. Con l’ansia di finire.
In tutti e tre i casi, per provare a mitigarla, a pensare ad altro,
osservo le persone. E così faccio da qualche settimana, ogni giovedì
pomeriggio, per far passare le tre ore di relazioni su argomenti anche
interessanti ma la cui durata si scontra con il mio deficit di attenzione.
La donna con la mascherina, unica nella sala. Fa caldo e mi dico che ci
vuole coraggio, il coraggio della paura, diceva Totò. Poi il tizio davanti a me
tossisce di continuo, e allora la invidio, io ho solo paura, senza alcun
coraggio.
L’uomo che fa domande inutili ai relatori, non perché è interessato ma
per farsi notare. Già l’essersi collocato in prima fila manifesta il suo
desiderio di non essere pubblico, ma di “avere” un pubblico.
Le lezioni si susseguono e ancora una volta si conferma il meccanismo
mentale per cui anche in una sala vasta e con molti posti liberi a disposizione,
le persone tendono a sedersi nello stesso posto della volta precedente. E’ un criterio innato di delimitazione di uno
spazio proprio, né più né meno di come fanno gli animali quando orinano lungo
un perimetro per delimitarlo. Così ho fatto anche io, mi sono sistemato sempre
nello stesso settore dell’aula, per fortuna le sedie erano libere e non c’è
stato bisogno di pisciare, è bastato poggiare lo zaino per prendere il posto.
Vicino a me una donna che ugualmente ha individuato sin dalla prima
lezione quell’area per seguire il corso. Anche gli abbigliamenti mi
incuriosiscono. Di lei, per esempio, mi ha colpito il power dressing. Il corso
è piuttosto informale, ma lei in quasi tutte le lezioni veste seria, formale,
“da avvocato”. Come a voler riaffermare il suo ruolo in un contesto in cui è,
mi pare, la più giovane. E mentre molti scherzano, chiacchierano fra vicini,
ridono nelle pause o anche durante le lezioni, lei sta da sola e non sorride
quasi mai, lo sguardo severo, prende appunti su ciò che ascolta. Non è venuta a
perdere tempo, o almeno fa di tutto perché non sia tempo perso. O magari non
sorride proprio perché sente che avrebbe potuto impiegarlo meglio, il suo
tempo.
Poco distante, un’altra collega si lascia invece notare per i suoi
outfits appariscenti e sempre cangianti. Una volta indossa un giubbino di pelle
di un azzurro intenso e delle scarpe da ginnastica con le zeppe e i
brillantini. Un’altra un pantalone rosso fiammante. Un’altra ancora un abito
nero, leggero. Anche l’acconciatura dei capelli cambia molto, lievemente
ondulati oppure mossi o addirittura coi ricci. Non fosse per il viso
particolare, molto grazioso, e per gli occhi neri e acquosi, non sarebbe facile
riconoscerla come la stessa persona, da una lezione all’altra.
I relatori si susseguono, la qualità degli interventi è altalenante. C’è
chi è molto esperto, sa come tenere attento l’uditorio, e altri che non hanno
tecnica oratoria, abusano di intercalari. La psicologa che infarcisce il suo
intervento con una serie di “diciamo” e di “tra virgolette”. Tutto è tra
virgolette, per lei, anche le cose più concrete che non si prestano affatto ad
essere virgolettate. Molti intorno a me lo notano, c’è chi conta quante volte
lo dica, chi si dà di gomito ad ogni ripetizione. La giovane collega accanto a
me è già andata via, chissà se avrebbe sorriso, questa volta.