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giovedì 21 maggio 2015

Coincidenze


Ma tu guarda un po’ che coincidenza!

Chissà quante volte ognuno di noi avrà pronunciato questa frase. Forse alla maggior parte delle persone sarà capitato, ma ad Ernesto mai.

Lui era uno di quegli uomini precisi, che non lasciano mai niente al caso. Ed era anche un uomo poco fortunato, diciamolo pure: sfigato. E questa sua ultima caratteristica, che aveva scoperto di avere sin da bambino, lo aveva portato a sviluppare quel carattere metodico e puntiglioso in ogni attività cui si dedicava. Era, infatti, intimamente convinto che se mai avesse lasciato fare al destino, quello gli avrebbe sicuramente riservato una brutta sorpresa.

Così aveva scelto un lavoro dipendente, statale, di quelli che non devi stare alla speranza del cliente, della ripresa economica. Ti basta alzarti all’ora esatta e svolgere i tuoi compiti con attenzione e a fine mese la busta paga arriva sempre.

Una donna ancora non l’aveva trovata, e non c’era da sorprendersi, perché cercava una moglie tutta casa e casa (che la chiesa, troppa fede e poco raziocinio, non faceva per lui). Una che si occupasse esclusivamente di lui e dei bambini. Ne avrebbero avuti due, maschio e femmina, concepiti nel giorno esatto calcolando l’ovulazione, nati di parto cesareo programmato, cresciuti alla scuola pubblica, rifuggendo con tigna ogni tentazione di corsi di danza, pianoforte, canto, ovvero di tutte quelle attività buone a mettere in moto la fantasia, ché quella, figurati, appena può ti frega nei modi più artistici.

Solo che, si sa, ci sono cose che tu non puoi gestire, e nel nostro paese più che in ogni altra parte del globo. Come, ad esempio, gli orari dei treni.

Se Ernesto si trovava a dover affrontare un viaggio andava nel panico, perché vai a sapere se proprio quel giorno uno sciopero dei ferrovieri, un suicidio inopportuno, la diarrea di un macchinista, non ti andavano a ritardare la corsa e a sconvolgere l’ordine sacro delle cose.

Quando perciò, raramente, gli accadeva di non poterne fare a meno, aveva preso l’abitudine di prenotare sempre il treno precedente a quello che sarebbe stato normale prendere, anche se, metti caso (il caso!), partiva tre ore prima. In quel modo riteneva di poter assorbire adeguatamente qualsiasi rischio di intoppo e giungere a destinazione comunque in tempo.

Ma quella volta il problema era doppio. Perché il viaggio necessitava di un cambio di treno prima di arrivare a destinazione. E per riuscire a prendere il secondo, doveva approfittare di una coincidenza con una corsa che sarebbe partita appena pochi minuti dopo l’arrivo del primo. Niente di più disturbante, per uno come Ernesto, essere in balìa di una coincidenza! E non poteva fare altrimenti, perché quel treno era proprio l’unico, non ce n’erano altri né prima né dopo. Niente da fare, doveva mettersi in gioco.

Salì sul treno (si badi bene, partito in perfetto orario) con la perturbante sensazione di essere nient’altro che una pallina scagliata con vigore dal croupier in un’enorme roulette.

I passeggeri ciarlanti, stupidamente ignari di essere nelle mani del destino cinico e baro, il panorama segmentato le cui immagini si susseguivano e ricomponevano dai finestrini, le stazioni che come una via crucis scandivano il mistero doloroso di quel viaggio, misero a dura prova il suo sistema nervoso, tanto che in un percorso di neppure due ore probabilmente guardò l’orologio almeno settemiladuecento volte, una per ogni secondo trascorso.

Eppure, a dispetto di ogni sua catastrofica previsione, li treno arrivò in orario.

Per la coincidenza aveva ancora ben sette minuti, di certo più che sufficienti per scendere, cambiare binario e risalire sull’altro treno che l’avrebbe portato a destinazione.

Neanche a dirlo, ben prima di giungere in stazione si era alzato e, valigie alla mano, si era premurato di porsi in pole position davanti alla porta del vagone, tanto che ebbe modo e tempo di imparare a memoria in tutte le lingue che doveva attendere l’arrèt diù trèn prima di premere il pulsante e che non era affatto il caso di penscé ò dehòr, keine gegenstaende ecc.

Così, non appena il treno si fermò e discese il predellino, Ernesto balzò fuori come una molla e, dato un rapido sguardo a destra e a sinistra per capire verso quale direzione il numero dei binari fosse crescente o decrescente, ebbe tutte le coordinate esatte e mise in moto le gambe per trovarsi in tempo per la coincidenza.

Ma vi siete dimenticati che era uno sfigato? Mancavano ben sette minuti e però prima si ruppe la maniglia della valigia, che cadde rovesciando tutto il suo contenuto sul marciapiede ed Ernesto dovette fare violenza a se stesso per non rimetterlo a posto con lo stesso meticoloso ordine con cui era stato riposto. E si persero ben quattro minuti. Meno tre.

Poi dovette scansare un questuante che chiedeva l’elemosina, un tizio che voleva accendere, aggirare con enorme difficoltà una signora paffuta come Giove intorno alla quale ruotavano figli e valigie come satelliti occupando tutto lo spazio a disposizione, tanto che quando giunse in vista del suo binario di minuti n’era rimasto appena uno.

La macchina era già in moto, il capostazione, fischietto in bocca, faceva segno ai passeggeri di affrettarsi, e però il treno era ben lungo ed Ernesto scoprì una falla nel suo piano di viaggio per il resto preciso allo spasimo. Non aveva controllato sul biglietto quale fosse il suo vagone. Direte voi: poco male, bastava salire su quello più vicino a lui e poi una volta a bordo avrebbe verificato e raggiunto il suo posto.

Questa però sarebbe stata la soluzione di un tipo disorganizzato e perciò abituato a trovare le soluzioni all’ultimo momento per rimediare alle proprie frequenti disattenzioni. Ma il cervello di Ernesto non era allenato a questo. Era come un Dodo privo da millenni di predatori trovatosi di colpo a dover combattere con una fauna non autoctona, affamata e maleducata, pronta ad adattarsi ad ogni nuova situazione a spese del più debole.

Pura selezione naturale cui il povero Ernesto non era pronto, e quindi provò a risolvere il problema né più né meno che come fa stolidamente lo struzzo nascondendo la testa sotto la sabbia.  Aprì la valigia per prendere il biglietto e controllare, e nel frattempo il capostazione fischiò, le porte si chiusero, le ruote si misero in moto, e in men che non si dica accanto ad Ernesto rimase soltanto una borsona aperta ed un binario vuoto.

Aveva perso il treno. Signore, lei è davvero un tipo distratto, avrebbe commentato surrealmente un fan di De Andrè parafrasando quel formidabile inciso della canzone Amico Fragile. E non sarebbe andato lontano dalla realtà, perché fragile, spiazzato ed indifeso ed a rischio estinzione era anche il nostro povero Ernesto, trovatosi di colpo privo di un piano B, lui che per giunta era da sempre privo pure di lato B, inteso come fortuna.

Provò a pensare positivo. A volte quando ti si chiude una porta ti si spalanca una finestra. Ma la sua interpretazione di questa frase fatta, specialmente in quel momento, non poteva che essere un invito al suicidio. E magari ci avrebbe pure pensato se non avesse avuto un intimo limite – quasi una legge della robotica – nel dovere di non intralciare gli altri. Il suicidio ferroviario è una delle maggiori fonti di disagio per i passeggeri, oltre che genesi di una serie innumerevole di terribili maledizioni a carico del malcapitato appena trapassato, tanto che se un novello Dante decidesse di farsi una capatina all’inferno sicuramente troverebbe un sottogirone di suicidi in cui stanno a penare coloro che con quel gesto pensavano di passare a miglior vita e invece avevano intralciato quella degli altri che in cambio gli avevano buggerato anche l’ipotesi di sollievo nell’aldilà.

Ma stiamo divagando troppo, mentre la situazione è grave. C’è questo povero Ernesto completamente in mezzo al guado (o, più propriamente, al guano) e deve trovare una soluzione.

Si guardò intorno, più che altro per un riflesso condizionato, come per sciogliere la cervicale, perché idee non gliene veniva una che fosse una. Se avesse avuto un po’ di amore per la letteratura si sarebbe potuto dare animo pensando all’importanza di chiamarsi Ernesto. Che diamine! Sarebbe bastato avvicinarsi a qualche signorina di buona famiglia e sussurrarle il suo nome. Magari non avrebbe avuto successo al primo colpo e neppure al secondo, ma forse al terzo qualcosa sarebbe accaduto, la ruota avrebbe preso a girare in un verso opposto al solito.

Ma come poteva pensarci, lui che leggeva soltanto il giornale della tv per programmare per tempo il videoregistratore e che si chiamava Ernesto non in omaggio al buon Oscar, e neppure all’attore del Cynar, che pure prendeva la vita con ottimismo, ma semplicemente come il nonno. Il caro Nonno Ernesto, morto come una rockstar, se parafrasiamo la fine di Jimi Hendrix soffocato dal suo stesso vomito. In realtà era morto come un fesso, schiacciato dal suo stesso trattore mentre si ostinava a coltivare cetriolini per il caso invero remoto in cui fossero tornate di moda le salamoie.

Per il caso”…. Ma allora, pensò Ernesto junior, il nonno non era come me, lui al caso ci credeva! Vai a sapere come, questa considerazione invece di abbatterlo ancor di più (era pur sempre morto sotto a un trattore, quello sprovveduto, fidando nel destino), lo stimolò a darsi da fare.

Raggiunse l’ufficio informazioni e chiese quando partiva il prossimo treno per la sua destinazione. L’impiegato rispose che fino all’indomani mattina non ce n’erano, purtroppo. Ma questo lui già lo sapeva. E tuttavia insistette.

Ma c’è… PER CASO la possibilità che ne passi comunque un altro prima?

L’uomo lo guardò dubbioso proprio come i primi coloni australiani guardavano i Dodo. Come un qualcosa di già estinto. E fece segno al successivo della fila di avanzare.

Ma non aveva capito che Ernesto, già per aver formulato quella sola domanda, aveva rotto un argine, non solo i coglioni dell’impiegato. Perdere quel treno non era stato vano, perché gli aveva fatto ritrovare la speranza di cambiare il proprio destino.

Speranza destinata ad essere vanificata, lo comprendeva bene anch’egli, eppure quella fiammella, lo sentiva intimamente, sarebbe stata refrattaria ad ogni spegnimento, e lui avrebbe fatto del tutto per proteggerla, da quel momento in poi, avendo cura di tenere sempre la mano a parare il soffio del vento. Tutto per una coincidenza persa.

Che coincidenza, pensò. E rise, come non faceva da tempo. Mentre una signorina con tutta l’aria di essere di buona famiglia, gli si avvicinò, forse per chiedere un’informazione o solo per scambiare due chiacchiere in attesa del prossimo treno. “Ernesto, mi chiamo Ernesto”, le disse, inconsciamente capendone l’importanza.

Lei, che non gli aveva ancora rivolto alcuna domanda, sorrise divertita.

“Ho perso il treno”, gli disse, “quello appena partito”.

Era destino, allora, che ci incontrassimo”, rispose fiero Ernesto.

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