“Ma tu guarda un po’ che coincidenza!”
Chissà quante
volte ognuno di noi avrà pronunciato questa frase. Forse alla maggior parte
delle persone sarà capitato, ma ad Ernesto mai.
Lui era uno di
quegli uomini precisi, che non lasciano mai niente al caso. Ed era anche un
uomo poco fortunato, diciamolo pure: sfigato. E questa sua ultima
caratteristica, che aveva scoperto di avere sin da bambino, lo aveva portato a
sviluppare quel carattere metodico e puntiglioso in ogni attività cui si
dedicava. Era, infatti, intimamente convinto che se mai avesse lasciato fare al
destino, quello gli avrebbe sicuramente riservato una brutta sorpresa.
Così aveva
scelto un lavoro dipendente, statale, di quelli che non devi stare alla
speranza del cliente, della ripresa economica. Ti basta alzarti all’ora esatta
e svolgere i tuoi compiti con attenzione e a fine mese la busta paga arriva
sempre.
Una donna
ancora non l’aveva trovata, e non c’era da sorprendersi, perché cercava una
moglie tutta casa e casa (che la
chiesa, troppa fede e poco raziocinio, non faceva per lui). Una che si occupasse
esclusivamente di lui e dei bambini. Ne avrebbero avuti due, maschio e femmina,
concepiti nel giorno esatto calcolando l’ovulazione, nati di parto cesareo
programmato, cresciuti alla scuola pubblica, rifuggendo con tigna ogni
tentazione di corsi di danza, pianoforte, canto, ovvero di tutte quelle attività
buone a mettere in moto la fantasia, ché quella, figurati, appena può ti frega
nei modi più artistici.
Solo che, si
sa, ci sono cose che tu non puoi gestire, e nel nostro paese più che in ogni
altra parte del globo. Come, ad esempio, gli orari dei treni.
Se Ernesto si
trovava a dover affrontare un viaggio andava nel panico, perché vai a sapere se
proprio quel giorno uno sciopero dei ferrovieri, un suicidio inopportuno, la
diarrea di un macchinista, non ti andavano a ritardare la corsa e a sconvolgere
l’ordine sacro delle cose.
Quando perciò,
raramente, gli accadeva di non poterne fare a meno, aveva preso l’abitudine di
prenotare sempre il treno precedente a quello che sarebbe stato normale
prendere, anche se, metti caso (il caso!),
partiva tre ore prima. In quel modo riteneva di poter assorbire adeguatamente
qualsiasi rischio di intoppo e giungere a destinazione comunque in tempo.
Ma quella
volta il problema era doppio. Perché il viaggio necessitava di un cambio di
treno prima di arrivare a destinazione. E per riuscire a prendere il secondo,
doveva approfittare di una coincidenza con una corsa che sarebbe partita appena
pochi minuti dopo l’arrivo del primo. Niente di più disturbante, per uno come
Ernesto, essere in balìa di una coincidenza! E non poteva fare altrimenti,
perché quel treno era proprio l’unico, non ce n’erano altri né prima né dopo.
Niente da fare, doveva mettersi in gioco.
Salì sul treno
(si badi bene, partito in perfetto orario) con la perturbante sensazione di
essere nient’altro che una pallina scagliata con vigore dal croupier in un’enorme roulette.
I passeggeri
ciarlanti, stupidamente ignari di essere nelle mani del destino cinico e baro,
il panorama segmentato le cui immagini si susseguivano e ricomponevano dai
finestrini, le stazioni che come una via crucis scandivano il mistero doloroso di
quel viaggio, misero a dura prova il suo sistema nervoso, tanto che in un
percorso di neppure due ore probabilmente guardò l’orologio almeno
settemiladuecento volte, una per ogni secondo trascorso.
Eppure, a
dispetto di ogni sua catastrofica previsione, li treno arrivò in orario.
Per la
coincidenza aveva ancora ben sette minuti, di certo più che sufficienti per
scendere, cambiare binario e risalire sull’altro treno che l’avrebbe portato a
destinazione.
Neanche a
dirlo, ben prima di giungere in stazione si era alzato e, valigie alla mano, si
era premurato di porsi in pole position
davanti alla porta del vagone, tanto che ebbe modo e tempo di imparare a
memoria in tutte le lingue che doveva attendere l’arrèt diù trèn prima di
premere il pulsante e che non era affatto il caso di penscé ò dehòr, keine
gegenstaende ecc.
Così, non
appena il treno si fermò e discese il predellino, Ernesto balzò fuori come una
molla e, dato un rapido sguardo a destra e a sinistra per capire verso quale
direzione il numero dei binari fosse crescente o decrescente, ebbe tutte le
coordinate esatte e mise in moto le gambe per trovarsi in tempo per la
coincidenza.
Ma vi siete
dimenticati che era uno sfigato? Mancavano ben sette minuti e però prima si
ruppe la maniglia della valigia, che cadde rovesciando tutto il suo contenuto
sul marciapiede ed Ernesto dovette fare violenza a se stesso per non rimetterlo
a posto con lo stesso meticoloso ordine con cui era stato riposto. E si persero
ben quattro minuti. Meno tre.
Poi dovette scansare
un questuante che chiedeva l’elemosina, un tizio che voleva accendere, aggirare
con enorme difficoltà una signora paffuta come Giove intorno alla quale
ruotavano figli e valigie come satelliti occupando tutto lo spazio a
disposizione, tanto che quando giunse in vista del suo binario di minuti n’era
rimasto appena uno.
La macchina era
già in moto, il capostazione, fischietto in bocca, faceva segno ai passeggeri
di affrettarsi, e però il treno era ben lungo ed Ernesto scoprì una falla nel
suo piano di viaggio per il resto preciso allo spasimo. Non aveva controllato sul
biglietto quale fosse il suo vagone. Direte voi: poco male, bastava salire su
quello più vicino a lui e poi una volta a bordo avrebbe verificato e raggiunto
il suo posto.
Questa però sarebbe
stata la soluzione di un tipo disorganizzato e perciò abituato a trovare le
soluzioni all’ultimo momento per rimediare alle proprie frequenti disattenzioni.
Ma il cervello di Ernesto non era allenato a questo. Era come un Dodo privo da
millenni di predatori trovatosi di colpo a dover combattere con una fauna non
autoctona, affamata e maleducata, pronta ad adattarsi ad ogni nuova situazione
a spese del più debole.
Pura selezione
naturale cui il povero Ernesto non era pronto, e quindi provò a risolvere il
problema né più né meno che come fa stolidamente lo struzzo nascondendo la
testa sotto la sabbia. Aprì la valigia
per prendere il biglietto e controllare, e nel frattempo il capostazione
fischiò, le porte si chiusero, le ruote si misero in moto, e in men che non si
dica accanto ad Ernesto rimase soltanto una borsona aperta ed un binario vuoto.
Aveva perso il
treno. Signore, lei è davvero un tipo distratto, avrebbe commentato
surrealmente un fan di De Andrè parafrasando quel formidabile inciso della
canzone Amico Fragile. E non sarebbe andato lontano dalla realtà, perché
fragile, spiazzato ed indifeso ed a rischio estinzione era anche il nostro
povero Ernesto, trovatosi di colpo privo di un piano B, lui che per giunta era
da sempre privo pure di lato B, inteso come fortuna.
Provò a
pensare positivo. A volte quando ti si
chiude una porta ti si spalanca una finestra. Ma la sua interpretazione di
questa frase fatta, specialmente in quel momento, non poteva che essere un
invito al suicidio. E magari ci avrebbe pure pensato se non avesse avuto un
intimo limite – quasi una legge della robotica – nel dovere di non intralciare
gli altri. Il suicidio ferroviario è una delle maggiori fonti di disagio per i
passeggeri, oltre che genesi di una serie innumerevole di terribili maledizioni
a carico del malcapitato appena trapassato, tanto che se un novello Dante
decidesse di farsi una capatina all’inferno sicuramente troverebbe un
sottogirone di suicidi in cui stanno a penare coloro che con quel gesto pensavano
di passare a miglior vita e invece avevano intralciato quella degli altri che
in cambio gli avevano buggerato anche l’ipotesi di sollievo nell’aldilà.
Ma stiamo
divagando troppo, mentre la situazione è grave. C’è questo povero Ernesto completamente
in mezzo al guado (o, più propriamente, al guano)
e deve trovare una soluzione.
Si guardò
intorno, più che altro per un riflesso condizionato, come per sciogliere la
cervicale, perché idee non gliene veniva una che fosse una. Se avesse avuto un
po’ di amore per la letteratura si sarebbe potuto dare animo pensando all’importanza di chiamarsi Ernesto. Che
diamine! Sarebbe bastato avvicinarsi a qualche signorina di buona famiglia e
sussurrarle il suo nome. Magari non avrebbe avuto successo al primo colpo e
neppure al secondo, ma forse al terzo qualcosa sarebbe accaduto, la ruota
avrebbe preso a girare in un verso opposto al solito.
Ma come poteva
pensarci, lui che leggeva soltanto il giornale della tv per programmare per
tempo il videoregistratore e che si chiamava Ernesto non in omaggio al buon
Oscar, e neppure all’attore del Cynar, che pure prendeva la vita con ottimismo,
ma semplicemente come il nonno. Il caro Nonno Ernesto, morto come una rockstar,
se parafrasiamo la fine di Jimi Hendrix soffocato dal suo stesso vomito. In
realtà era morto come un fesso, schiacciato dal suo stesso trattore mentre si
ostinava a coltivare cetriolini per il caso invero remoto in cui fossero
tornate di moda le salamoie.
“Per il caso”…. Ma allora, pensò Ernesto
junior, il nonno non era come me, lui al caso ci credeva! Vai a sapere come,
questa considerazione invece di abbatterlo ancor di più (era pur sempre morto
sotto a un trattore, quello sprovveduto, fidando nel destino), lo stimolò a
darsi da fare.
Raggiunse
l’ufficio informazioni e chiese quando partiva il prossimo treno per la sua
destinazione. L’impiegato rispose che fino all’indomani mattina non ce n’erano,
purtroppo. Ma questo lui già lo sapeva. E tuttavia insistette.
Ma c’è… PER CASO la possibilità che ne passi
comunque un altro prima?
L’uomo lo
guardò dubbioso proprio come i primi coloni australiani guardavano i Dodo. Come
un qualcosa di già estinto. E fece segno al successivo della fila di avanzare.
Ma non aveva
capito che Ernesto, già per aver formulato quella sola domanda, aveva rotto un
argine, non solo i coglioni dell’impiegato. Perdere quel treno non era stato
vano, perché gli aveva fatto ritrovare la speranza di cambiare il proprio
destino.
Speranza
destinata ad essere vanificata, lo comprendeva bene anch’egli, eppure quella
fiammella, lo sentiva intimamente, sarebbe stata refrattaria ad ogni spegnimento,
e lui avrebbe fatto del tutto per proteggerla, da quel momento in poi, avendo
cura di tenere sempre la mano a parare il soffio del vento. Tutto per una
coincidenza persa.
Che coincidenza, pensò. E rise, come non
faceva da tempo. Mentre una signorina con tutta l’aria di essere di buona
famiglia, gli si avvicinò, forse per chiedere un’informazione o solo per
scambiare due chiacchiere in attesa del prossimo treno. “Ernesto, mi chiamo
Ernesto”, le disse, inconsciamente capendone l’importanza.
Lei, che non
gli aveva ancora rivolto alcuna domanda, sorrise divertita.
“Ho perso il
treno”, gli disse, “quello appena partito”.
“Era destino, allora, che ci
incontrassimo”, rispose fiero Ernesto.
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