C’è un’estetica
del viaggio. La scoperta di nuovi posti, il fascino che sprigiona la conoscenza
di un luogo “altro” rispetto a quelli consuetamente frequentati.
Il mondo
verticale di Manhattan, la biodiversità australiana, la lentezza nordafricana.
Mete attrattive che probabilmente non vedrò mai, accontentandomi del mondo
orizzontale di villette a due piani, gatti randagi e frenesia fine a se stessa.
C’è anche un’etica
del viaggio. La positiva inquietudine che ci fa crescere, lo scambio di esperienze,
il mettere in discussione il proprio piccolo mondo per poi tornarvi cambiati riuscendo
ad arricchirlo con idee mutuate dal confronto con realtà diverse.
Io dei miei viaggi
ricordo per lo più le stazioni.
L’etica e l’estetica
dello stare nella sua più intima
etimologia.
L’attesa, che
non è ancora né meta e neppure percorso, ma in potenza lo è entrambi.
La macchina che
si mette in moto. Il treno quando è ancora fermo eppure sembra muoversi, il
senso ingannato dalla partenza dei vagoni del convoglio di fianco al
finestrino; l’esatta metafora del mio viaggio ideale. Con la mente già predisposta,
convinta, eppure, di fatto, ancora fermo.
Al sicuro. E
con ancora la possibilità di non partire affatto.
Perché partire
è un po’ morire.
Ma rimanere è
morire del tutto, obietterà qualcuno.
La frase mi
piace, spero sia mia, anche se non ne sono sicuro, visto che la penso
diversamente. Ma non è un argomento definitivo, sono un avvocato, sono
costituzionalmente portato a difendere anche tesi nelle quali non credo troppo.
Non lo nego, ci
sono stati viaggi che mi son piaciuti.
Quei giorni che
finiscono troppo presto, e nei quali ti trovi a fare il paragone impietoso fra
il viaggio d’andata, denso di aspettative, e quello di ritorno, che non
nasconde, ahinoi, sorprese: il solito noioso tran tran.
Ma è bastato,
anche in quelle occasioni, rivedere le strade consuete, quelle in cui per sbagliare
non hai più bisogno del navigatore, per sentire quel profumo nelle narici, che
alcuni chiamano aria di casa mia.
Ma sarebbe una
visione del tutto superficiale, perché il mio piacere di ritornare non è quello
di rivedere i luoghi familiari ma più propriamente quello di riavere il mio
punto di osservazione. Quello che puoi godere soltanto stando, non andando.
Non è una
contraddizione con la mia visione tolemaica il fatto che io ami o abbia amato i
buoni reportage di viaggio, dal Kilimangiaro di Hemingway all’Italia girata in bicicletta
o in 500 nei libri di Paolo Rumiz.
Il libro è,
infatti, solo un’appendice sensoriale del mio osservatorio, che mi consente di
vivere mediatamente le emozioni narrate, ma in genere elaborandole soggettivamente,
e trasformandole a loro volte – complici la mia fantasia e la mia scarsa
memoria – in aneddoti che mi capita di raccontare come storie vissute da me.
E magari ne
sono anche convinto.
Spesso nelle
stazioni mi soffermo ad osservare i partenti e gli arrivanti, categorie che
difficilmente si possono confondere, tanto trasfuse anche in esse i caratteri
peculiari dell’attesa e dell’abbandono.
Molto più
complesso è individuare quelli come me, coloro che stanno.
In inglese
siamo quelli con un –ing nella desinenza, a volte siamo participi presenti,
quando ancora la nostra natura di stanti
dura da pochi istanti.
In quei
momenti, mi scuserete il gioco di parole, siamo distanti.
Siamo appena
arrivati o non siamo ancora partiti. Siamo in cerca di una scusa per non farlo
o per giustificare quel che faremo. Ci limitiamo ad osservare.
E a chi ci
notasse possiamo suscitare impressioni diverse.
Siamo quelli
perplessi, che cercano informazioni e non sanno come ottenerle.
Siamo quelli
stranieri, anche nel proprio paese.
Siamo quelli
alieni alle sorprese.
Siamo come la
Vergine sgomenta di fronte al mistero. Stabat
mater.
E poi ci
trasformiamo in gerundi. La potenza si muta in atto.
Allora siamo
quelli che stanno stando.
Smettiamo la
nostra comoda ignavia solo per ignavia.
Siamo quelli
che leggono il cartellone delle partenze sperando in un congruo ritardo che ci
possa far visitare con calma la libreria.
Che non hanno
fame ma è comunque ora di pranzo.
Siamo come l’anziano
San Giuseppe nella canzone di De Andrè, che prendono un’iniziativa solo perché
stanchi di essere stanchi.
Ma c’è un’estetica
anche nello stare.
Quante persone ho
conosciute che pure loro stavano
qualcosa.
E lo facevano
da Dio, credetemi. Si sceglievano i posti migliori, quelli in prima fila.
Stavano su una terrazza panoramica a Ravello. Una volta ho bevuto
un caffè con una che stava in un
caffè vista mare, le svolazzano i capelli come su una cabriolet degli anni ’50 e
non c’era un filo di vento.
E non manca
neppure un’etica, nello stare.
Perché a stare da soli ci vuole una certa
attenzione prima di abituarsi, perché non è facile, basta un attimo e ti
trasformi in uno che va, o in uno che torna.
Quando poi stai da solo da parecchio tempo allora
capita che non ci fai più neppure caso, può darsi che giri a vuoto, come in
moto a luogo circoscritto, e intimamente ti sei convinto che quella sia la
regola, non l’eccezione, che anche quelli che vedi camminare insieme abbracciati
siano in realtà due che stanno da
soli. Così quando ti capita di incontrare un’altra persona, una che magari davvero
ci crede nel viaggio, che ti parla di altri nomi, altri luoghi, altre vite, tu lo
credi soltanto un rappresentante, uno che ti mostra depliant che a loro volta
mostrano soltanto palcoscenici, scenari di cartapesta. Perché ormai ti sei
fatto una ragione che lo stare non è solo
uno stato d’animo, ma un’esigenza
condivisa, e che chi si affanna a spendere i propri risparmi per un’altra
settimana di vacanza in posti esotici non è né più né meno che un drogato che
vuole farsi il suo trip, e magari quel
viaggio sarebbe ancora più comodo e banalmente rilassante rispetto a quello in
macchina, in treno o in aereo; mezzi di trasporto faticosi e certamente assai
meno efficaci di un’endovena.
L’ideale, lo
so, è trovare una persona con la quale stare
davvero insieme, non per caso.
Con la quale
trascorrere un intero weekend a stare
nei posti più belli del mondo.
A girare per i
mercatini d’antiquariato delle città d’arte, confondendosi con la folla di Porta
Portese a Roma o del Balùn a Torino, scherzando sulle manie di quei turisti che
vanno e vanno in continuazione senza portare davvero indietro con sé nulla se
non fotogrammi di un passato che non è mai stato presente, perché quelle foto
non hanno nulla di vero, sono pose create per avere un ricordo.
Ma un ricordo
falso che ricordo è?
Invece noi, che
in quel momento stiamo insieme,
avremo sempre un testimone che potrà affermare che ci siamo stati.
E le foto lo
confermano, ma non le nostre.
Noi siamo
quelli che stanno sullo sfondo delle
vostre.
Quelli che
mentre vi affannavate a fotografarvi, stavano
semplicemente lì.
E sembravano
felici.
Come se quello
fosse l’album del loro viaggio di nozze.
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