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domenica 16 novembre 2014

No, viaggiare

C’è un’estetica del viaggio. La scoperta di nuovi posti, il fascino che sprigiona la conoscenza di un luogo “altro” rispetto a quelli consuetamente frequentati.
Il mondo verticale di Manhattan, la biodiversità australiana, la lentezza nordafricana. Mete attrattive che probabilmente non vedrò mai, accontentandomi del mondo orizzontale di villette a due piani, gatti randagi e frenesia fine a se stessa.

C’è anche un’etica del viaggio. La positiva inquietudine che ci fa crescere, lo scambio di esperienze, il mettere in discussione il proprio piccolo mondo per poi tornarvi cambiati riuscendo ad arricchirlo con idee mutuate dal confronto con realtà diverse.

Io dei miei viaggi ricordo per lo più le stazioni.
L’etica e l’estetica dello stare nella sua più intima etimologia.
L’attesa, che non è ancora né meta e neppure percorso, ma in potenza lo è entrambi.
La macchina che si mette in moto. Il treno quando è ancora fermo eppure sembra muoversi, il senso ingannato dalla partenza dei vagoni del convoglio di fianco al finestrino; l’esatta metafora del mio viaggio ideale. Con la mente già predisposta, convinta, eppure, di fatto, ancora fermo.
Al sicuro. E con ancora la possibilità di non partire affatto.
Perché partire è un po’ morire.
Ma rimanere è morire del tutto, obietterà qualcuno.
La frase mi piace, spero sia mia, anche se non ne sono sicuro, visto che la penso diversamente. Ma non è un argomento definitivo, sono un avvocato, sono costituzionalmente portato a difendere anche tesi nelle quali non credo troppo.

Non lo nego, ci sono stati viaggi che mi son piaciuti.
Quei giorni che finiscono troppo presto, e nei quali ti trovi a fare il paragone impietoso fra il viaggio d’andata, denso di aspettative, e quello di ritorno, che non nasconde, ahinoi, sorprese: il solito noioso tran tran.
Ma è bastato, anche in quelle occasioni, rivedere le strade consuete, quelle in cui per sbagliare non hai più bisogno del navigatore, per sentire quel profumo nelle narici, che alcuni chiamano aria di casa mia.
Ma sarebbe una visione del tutto superficiale, perché il mio piacere di ritornare non è quello di rivedere i luoghi familiari ma più propriamente quello di riavere il mio punto di osservazione. Quello che puoi godere soltanto stando, non andando.

Non è una contraddizione con la mia visione tolemaica il fatto che io ami o abbia amato i buoni reportage di viaggio, dal Kilimangiaro di Hemingway all’Italia girata in bicicletta o in 500 nei libri di Paolo Rumiz.
Il libro è, infatti, solo un’appendice sensoriale del mio osservatorio, che mi consente di vivere mediatamente le emozioni narrate, ma in genere elaborandole soggettivamente, e trasformandole a loro volte – complici la mia fantasia e la mia scarsa memoria – in aneddoti che mi capita di raccontare come storie vissute da me.
E magari ne sono anche convinto.

Spesso nelle stazioni mi soffermo ad osservare i partenti e gli arrivanti, categorie che difficilmente si possono confondere, tanto trasfuse anche in esse i caratteri peculiari dell’attesa e dell’abbandono.
Molto più complesso è individuare quelli come me, coloro che stanno.
In inglese siamo quelli con un –ing nella desinenza, a volte siamo participi presenti, quando ancora la nostra natura di stanti dura da pochi istanti.
In quei momenti, mi scuserete il gioco di parole, siamo distanti.
Siamo appena arrivati o non siamo ancora partiti. Siamo in cerca di una scusa per non farlo o per giustificare quel che faremo. Ci limitiamo ad osservare.
E a chi ci notasse possiamo suscitare impressioni diverse.
Siamo quelli perplessi, che cercano informazioni e non sanno come ottenerle.
Siamo quelli stranieri, anche nel proprio paese.
Siamo quelli alieni alle sorprese.
Siamo come la Vergine sgomenta di fronte al mistero. Stabat mater.

E poi ci trasformiamo in gerundi. La potenza si muta in atto.
Allora siamo quelli che stanno stando.
Smettiamo la nostra comoda ignavia solo per ignavia.
Siamo quelli che leggono il cartellone delle partenze sperando in un congruo ritardo che ci possa far visitare con calma la libreria.
Che non hanno fame ma è comunque ora di pranzo.
Siamo come l’anziano San Giuseppe nella canzone di De Andrè, che prendono un’iniziativa solo perché stanchi di essere stanchi.

Ma c’è un’estetica anche nello stare.
Quante persone ho conosciute che pure loro stavano qualcosa.
E lo facevano da Dio, credetemi. Si sceglievano i posti migliori, quelli in prima fila.
Stavano su una terrazza panoramica a Ravello. Una volta ho bevuto un caffè con una che stava in un caffè vista mare, le svolazzano i capelli come su una cabriolet degli anni ’50 e non c’era un filo di vento.

E non manca neppure un’etica, nello stare.
Perché a stare da soli ci vuole una certa attenzione prima di abituarsi, perché non è facile, basta un attimo e ti trasformi in uno che va, o in uno che torna.
Quando poi stai da solo da parecchio tempo allora capita che non ci fai più neppure caso, può darsi che giri a vuoto, come in moto a luogo circoscritto, e intimamente ti sei convinto che quella sia la regola, non l’eccezione, che anche quelli che vedi camminare insieme abbracciati siano in realtà due che stanno da soli. Così quando ti capita di incontrare un’altra persona, una che magari davvero ci crede nel viaggio, che ti parla di altri nomi, altri luoghi, altre vite, tu lo credi soltanto un rappresentante, uno che ti mostra depliant che a loro volta mostrano soltanto palcoscenici, scenari di cartapesta. Perché ormai ti sei fatto una ragione che lo stare non è solo uno stato d’animo, ma un’esigenza condivisa, e che chi si affanna a spendere i propri risparmi per un’altra settimana di vacanza in posti esotici non è né più né meno che un drogato che vuole farsi il suo trip, e magari quel viaggio sarebbe ancora più comodo e banalmente rilassante rispetto a quello in macchina, in treno o in aereo; mezzi di trasporto faticosi e certamente assai meno efficaci di un’endovena.

L’ideale, lo so, è trovare una persona con la quale stare davvero insieme, non per caso.
Con la quale trascorrere un intero weekend a stare nei posti più belli del mondo.
A girare per i mercatini d’antiquariato delle città d’arte, confondendosi con la folla di Porta Portese a Roma o del Balùn a Torino, scherzando sulle manie di quei turisti che vanno e vanno in continuazione senza portare davvero indietro con sé nulla se non fotogrammi di un passato che non è mai stato presente, perché quelle foto non hanno nulla di vero, sono pose create per avere un ricordo.
Ma un ricordo falso che ricordo è?
Invece noi, che in quel momento stiamo insieme, avremo sempre un testimone che potrà affermare che ci siamo stati.
E le foto lo confermano, ma non le nostre.
Noi siamo quelli che stanno sullo sfondo delle vostre.
Quelli che mentre vi affannavate a fotografarvi, stavano semplicemente lì.
E sembravano felici.
Come se quello fosse l’album del loro viaggio di nozze.

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