Avevo già i
miei dubbi, ma fu esattamente dieci anni fa che realizzai che la politica non
era fatta per me. Quel periodo in cui, giovane avvocato intriso di concetti
etici, mi illudevo che la disponibilità, l’impegno, la passione, fossero
carburante sufficiente a spingere la macchina del consenso. Dovetti invece
accorgermi che le cose non stavano affatto così, che ciò che conta per la gran
parte degli elettori è ben altro. Potreste pensare al voto di scambio, all’opportunità
di un posto di lavoro che, nel nostro sud flagellato dalla disoccupazione, è
sicuramente stimolo più forte dei meri ideali. Magari fosse stato solo questo, lo
avrei ben compreso e accettato. C’era dell’altro.
Avevo radunato
alcuni amici, più o meno della mia età, quelli con cui avevo trascorso la
giovinezza al paese e, davanti ad una pizza, provavo ad illustrare il senso
della mia candidatura alle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di
lì a pochi mesi; parlavo di condivisione, di speranza, di necessità di “entrare
nel palazzo” perché solo dall’interno era possibile imprimere una svolta
concreta, di lotta contro l’immobilismo atavico che frenava ogni possibilità di
sviluppo del nostro paese ancora fermo, nella mentalità, al secondo dopoguerra.
Così chiedevo
il loro voto, per provare a cambiare le cose, per “guardare avanti” (era questo
il mio slogan). Uno di loro, però, che era rimasto silenzioso, al mio invito ad
esprimere le proprie perplessità, mi rispose che sì, le cose che dicevo erano
valide, però lui “doveva” votare per l’altro candidato, verso il quale aveva un
forte debito di riconoscenza. Mi chiesi cosa mai gli avesse fatto di così
importante, anche perché ricordo che veniva da me per ogni problema legale
(aveva una piccola attività imprenditoriale) che io gli risolvevo, peraltro
sempre gratis. Lui non volle rispondermi, e dopo i convenevoli, andò via.
Qualche giorno dopo un altro di coloro che erano con me quella sera mi disse
che gli aveva rivelato le ragioni del perché non intendeva votare per me ma per
l’altro candidato. Perché questi gli aveva insegnato a fare il nodo della
cravatta, e anzi, quando c’era un matrimonio e lui doveva mettersela, era
persino andato a casa sua a stringerglielo.
Tralasciando
il fatto che in quel momento se lo avessi avuto fra le mani gliel’avrei stretto
io come si deve quel nodo intorno al collo, davvero non potevo crederci, ma l’amico
davanti a me mi confermò che era proprio così, che nel raccontarglielo quello
era assolutamente serio.
Colsi da quell’evento
auspici negativi. Se un giovane si lascia convincere a votare per un candidato
che rappresenta il passato per una ragione assurda come questa, non c’è
speranza. A maggior ragione in quanto io, il mio amico, non l’avevo mai visto
con una cravatta! Non è che si trattasse di un’esigenza primaria e quotidiana,
eppure…
Gli auspici
negativi si realizzarono, io persi le elezioni e insieme a loro ogni mia speranza
di un cambiamento che, infatti non c’è mai stato.
Quell’amico lo
reincontrai qualche anno dopo. Eravamo ad un matrimonio. Lo salutai ma non mi
rispose, emise solo un grugnito. Si era mezzo assopito su una poltrona dopo
aver onorato il menu e soprattutto la cantina del ristorante. Sulla camicia
chiazzata scivolava, come un boa constrictor con la scoliosi, una cravatta a
pois che a malapena arrivava sul suo addome prominente. La parte anteriore ben più
corta della posteriore, che invece penzolava libera lungo un fianco. Il nodo,
allentato, ricordava uno scarafaggio sorpreso dietro uno scaffale e schiacciato
con una ramazza.
E intanto il
suo “mentore”, eletto con il suo voto e quello di tanti altri, stava beatamente
amministrando perpetuando l’andazzo degli ultimi cinquant’anni, dall’alto dei
suoi meritevoli favori, come quello di aver insegnato da par suo al mio amico
come annodarsi la cravatta.
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