Passando,
osservo alcuni ragazzi seduti davanti al bar. E penso che dovrebbero capire che per ovviare alla crescente disoccupazione giovanile non è
una buona soluzione diventare dipendenti dell’alcol, che non è mai stato un
buon datore di lavoro. Forse i primi tempi. Ma la ripresa non c’è mai. Faccio
questa pseudo battuta e mi viene in mente il calcio, la mia gioventù, ripenso a
quei giochi da adolescenti, quando si stabilisce che chi vince può dare un
bacio al più bello/bella della classe. Ma non tutti i ragazzi capivano le
regole del gioco. Infatti, capitava che quando il bacio lo dovevano dare a me,
toccava non a chi vinceva ma a chi perdeva. Che ridere!
Così pure
quando si facevano le squadre per la partita di pallone. E questa storia la
voglio raccontare. I due capitani facevano la conta, e sceglievano a uno a uno
i propri compagni, partendo ovviamente dai migliori. Io ero sempre fra gli
ultimi. Umiliante, ma da accettare perché in applicazione
della più stringente meritocrazia, fosse sempre così. Non dovevi abbatterti, era uno stimolo, dovevi lavorare duro per non essere più l’ultima scelta. E io ci
provavo, mi mettevo ore e ore a palleggiare (non è che palleggiassi così a
lungo, per ore ma sempre un palleggio alla volta), insistevo,
tenevo duro, mi dicevo che sarebbe successo finalmente che il capitano avrebbe
scelto me, non dico prima di tutti ma almeno non proprio per ultimo.
Solo che le
cose non miglioravano, anzi, se possibile peggiorarono. Sarà stata la metà degli
anni ’80, le prime partite sul nuovo campo “Cretazzi”, all’epoca ristretto con
le porte all’altezza delle aree di rigore, per un torneo di calcio a cinque.
Solo che eravamo in undici. E, neanche a dirlo, dopo che erano stati scelti i primi
cinque di ogni squadra, l’unico rimasto fuori ero io. A quel punto, perché il “dispari”
giocasse comunque, interveniva una regola altamente democratica, quella del “tempo
per uno”. Il soggetto superfluo diventava di colpo importante, perché la
squadra con cui veniva schierato, sebbene per un solo tempo, giocava con l’uomo
in più, quindi maggiori possibilità di coprire il campo, di avere un compagno
sempre smarcato. Eppure non andò così, niente affatto.
Perché nonostante
la superiorità numerica della squadra che mi schierava, il primo tempo finì invece
tre a zero per la squadra con l’uomo in meno. Poi nell’intervallo il cambio di
casacca e scesi in campo con quelli che stavano dominando. E che con me in più fra
le loro fila, loro che stavano vincendo, persero la partita 4-3. Un capolavoro,
una partita indimenticabile come quell’Italia–Germania mondiale del 1970
conclusasi con il medesimo risultato, e che mi costrinse a trarre le
inevitabili conclusioni.
Da quel momento
io e il calcio ci separammo consensualmente, rimanemmo amici, io presi in
affido il divano e da quel momento da “sportivo” divenni appassionato davanti
alla TV. Continuai a palleggiare, in gran segreto, nella mia cantina, e vi
confesso che ci furono occasioni magiche in cui ne feci anche dieci, solo però
se consideriamo validi i tocchi di ginocchio, di petto, spalla, muro e, non
essendoci arbitri presenti, anche qualche fuggevole rimando di mano per non far
cadere in terra il pallone.
Ci fu ancora
qualche partitella uno contro uno a calcio-tennis, con le righe in terra
tracciate con il carbone, contro qualche cuginetto di dieci anni più piccolo,
dove strappai qualche pareggio, poi più niente, non potetti più provare quelle indimenticabili
emozioni (perché anche quelle negative lo sono, e si dimenticano ben più
difficilmente); ad esempio ricordo ancora a distanza di oltre trent’anni di
quando capitavo in squadra con persone che non mi conoscevano e quindi all’inizio
mi passavano fiduciose la palla, e io mi impegnavo pure a scartare l’avversario
ma non ci riuscivo quasi mai, e allora i passaggi in mio favore si diradavano
fino a cessare del tutto, allora chiamavo la palla a gran voce, ma non me la
davano mai, e alla fine non avevo più neppure il coraggio di alzare il ditino mignolo
e chiedere per piacere, tanto era inutile, a meno che in squadra non ci fosse
qualche amico vero, che aveva compassione e allora me la passava comunque
mentre tutti gli altri intorno, cercando di non essere visti si facevano la
croce, e qualcuno più sfacciato, quando c’era in ballo la pizza, diceva apertamente
al mio amico che se mi passava la palla la cena la pagava lui. Cose così, che segnano.
Almeno segnano loro. Gli unici “gol” venuti da me in una partita.
E credetemi,
per queste cose non c’è riscatto. Quando mi sfottevano, qualcuno che mi voleva
bene li apostrofava: “voi saprete giocare a pallone, ma lui a scuola va meglio
di tutti voi!”. Ma era peggio ancora! Perché io – e chiunque altro – avrei
volentierissimo scambiato i miei inutili dieci sulla pagella con un dieci sulle
spalle come Maradona, Baggio, Antognoni, D’Amico, gli idoli di allora! Tutto il
resto della mia vita, gli hobby, i talenti, non valevano quanto il poter essere
protagonista su un campetto.
Addirittura, in
quegli anni di enormi ristrettezze economiche dei nostri genitori, non
potendomi permettere un paio di scarpe bullonate per poter partecipare alle
sfide sul campo in terra battuta (con le “Tepa sport” da ginnastica che usavano
allora finiva lungo disteso al primo tentativo di calciare la palla), arrivai
persino a barattare l’organo elettrico su cui avevo imparato a suonare, con un
paio di Adidas usate, e pure di qualche numero in meno, ma coi così desiderati “tacchetti”!
Chissà se le usai mai… Questo non lo ricordo più, che fossero ai miei piedi
proprio in quella famigerata partita del 4-3? Forse si trattava di scarpe
magiche, come nelle favole, stivali delle sette leghe, o meglio scarpine di
Cenerentola, infatti mi dicevano che giocavo come una femminuccia (ma non era
vero, tante ragazzine giocavano molto meglio, con più grinta e miglior tocco).
Comunque, già
allora soffrivo di insonnia, e per addormentarmi avevo bisogno di pensare a “cose
belle”, così suggeriva mia madre, e allora mi immaginavo al centro del campo,
in serie A, osannato dagli spalti, e almeno nei sogni non avevo problemi a
scartare gli avversari e infilare la palla nel sette col mio sinistro
vellutato.
Poi gli anni
passarono, e anche i sogni hanno una loro dignità, si devono nutrire di verità,
se sono troppo incredibili ottieni l’effetto contrario, invece di rilassarti,
ti incazzi ancor di più per quanto la tua vita sia in realtà totalmente diversa
da loro. E allora, quando diventai troppo grande per potermi ancora immedesimare
nei miei idoli che via via si erano ritirati per sopraggiunti limiti d’età,
dovetti giocoforza cambiare soggetto alle mie sceneggiature oniriche. Il tempo
era passato, misi una pietra sopra sul calcio giocato e iniziai a sognare di
diventare cantautore. Scelsi Ligabue, stemmo sul palco per anni insieme, quasi
tutte le notti, a scambiarci le canzoni, a duettare. Per un po’ dormii
tranquillo, lì in realtà un po’ di talento in più rispetto al pallone l’avevo,
ma neanche tanto, lo so. Infatti, Liga a Campovolo pure quest’anno ha fatto
centocinquantamila spettatori paganti, mentre io ancora adesso la sera mi metto
a suonare la chitarrina da solo, a casa, o davanti a mia figlia. Ma sentirla
cantare prima di me i testi delle mie sconosciute canzoni mi riempie di gioia
che non potete crederci, forse ancor di più di quando Luciano sente l’urlo
della folla non appena arpeggia i primi accordi di “Certe notti”.
Magari uno di
questi giorni io e lei proviamo pure due palleggi. Giusto due. Uno alla volta.
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