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domenica 21 febbraio 2016

L'Eco di uno scontrino

Quando, all’incirca dieci anni fa, mi affacciai al mondo del blogging, si trattava di un universo in piena espansione. Erano state create svariate piattaforme ed ognuna di esse accoglieva un numero esagerato di blog, la gran parte dei quali, pur presentando contenuti assolutamente banali – o forse proprio per questo – aveva un notevolissimo seguito. Si trattava di veri e propri diari, in cui quotidianamente si raccontavano le proprie riflessioni e descrivevano eventi capitati a casa, sul lavoro, nei rapporti amorosi. Ogni post suscitava una caterva di commenti del medesimo tenore, creando un interscambio basico per l’epoca assolutamente originale e voyeuristicamente attraente. Potremmo paragonare il successo di quei pionieri a quello della prima edizione del Grande Fratello televisivo, quando ci tennero a milioni incollati davanti al teleschermo le vicende di più che ordinaria quotidianità sentimentale che coinvolgevano Pietro Taricone, Marina La Rosa e gli altri abitanti della “Casa”. Ulteriore elemento intrigante (e che maggiormente distingue il fenomeno del blogging dai più recenti facebook e twitter) era l’assoluta libertà di anonimato. La maggior parte dei bloggers usava nickname, le immagini erano spesso avatar grafici, e i riferimenti alla vita privata, se pure espliciti, interessavano per il fatto in sé, non per l’autore, atteso che nel 99,99% dei casi i blogger e i lettori (quasi sempre blogger a loro volta) non si conoscevano affatto, prima.
In realtà, rispetto a quest’ultima considerazione, la mia potrebbe sembrare un’eccezione, in quanto fui introdotto a quel mondo da una blogger mia amica. Ma siccome non si trattava di una ragazza che frequentavo ma che avevo conosciuto in una chat e non ci eravamo mai visti, probabilmente anche il mio caso rientrava nella consuetudine. Appassionato da sempre di scrittura creativa, da principio ebbi difficoltà ad uniformarmi allo stile imperante del “web log” (poi contratto in blog), cioè del diario online. Non ero abituato a scrivere di me, soprattutto non ne avevo voglia, almeno non in maniera diretta. Così pensai di riflettere me stesso negli argomenti trattati, notizie, cinema, televisione, politica, il tutto senza realmente approfondire quanto commentato, ma soltanto come spunto per parlare di me. Insomma, una scrittura yo-yo, che lanciavo srotolando il filo dei miei pensieri e mi ritornava accresciuta da quelli dei miei lettori che anch’essi commentavano la notizia ma, in realtà, parlavano di me e insieme di loro. E il successo fu notevole, Glaurito divenne un nome noto fra i blogger di Splinder, la piattaforma su cui scrivevo.
Il riferimento, certamente troppo alto, che avevo voluto prendere come esempio, era quello delle Bustine di Minerva pubblicate da Eco sull’Espresso. Per avvicinarmi ancora di più al modello che aveva intitolato la rubrica con quel nome, che richiamava le scatoline di fiammiferi sul cui retro si usava appuntare nomi, indirizzi o numeri di telefono, io, non fumatore, avevo pensato di chiamare il mio blog “Il retro dello scontrino”. L’enorme distanza, anche di classe, fra i due titoli, mi distolse da quell’idea malamente scopiazzata e il blog si chiamò “il Contrario di tutto”, nome che resiste tutt’ora se non nell’intestazione, nell’indirizzo web di questo più recente blog.
Poi il tempo passò, i blog si ridussero sempre più di numero e visitatori (passato il momento di euforia, la gente che non era abituata a scrivere e a leggere tornò alle sue abitudini), soppiantati dai più semplici e meno impegnativi social media, e rimasero in auge soltanto quelli più settoriali.
Io stesso scrivo qui, ormai, molto più di rado quanto vorrei. Abituato, anzi, al microblogging di fb e twitter, mi capita di sentirmi privo di allenamento ad una composizione più lunga e poi, diciamocela tutta, è inevitabile seguire la moda. La gente va dove sta altra gente. I ristoranti vuoti sono sempre più vuoti e quelli pieni sempre più pieni. Un’applicazione ancestralmente radicata nel nostro DNA di animali da branco. Un post scritto qui ha una diffusione di molto inferiore a quella che può avere su facebook. Anzi, sono convinto che tra queste Caramelle potrei nascondere anche il pin del mio bancomat e non se ne accorgerebbe nessuno. E se invece accadesse, non mi dispiacerebbe affatto. Innanzitutto perché di questi tempi pure i soldi sui conti correnti hanno fatto la fine dei blog, ma soprattutto in quanto chi mi segue, e spesso sono persone che lo fanno da tanto, sono da considerarsi ormai davvero degli amici; Amici veri, non come quelli di facebook che ti conoscono solo di vista o al massimo cuggino del cuggino. Qui la gente ti conosce nell’anima.
E allora questo post, scritto sul balcone godendo di un primo timido sole, quasi primaverile, è per voi, e per me. Per ricordare en passant quel Grande Maestro scomparso ieri lasciando un vuoto davvero incolmabile, e perché, in fondo, le mode sono come un cerchio, sono tornati i pantaloni a zampa di elefante, torneranno anche i bei tempi dei blog.
E allora tanto vale star qui, attendere, e guardare la collina.
E’ così bella.

P.S. 51313


venerdì 5 febbraio 2016

Il giorno che diventammo una foto in bianco e nero

"...Quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l'ore future..."
(da "I sepolcri" di U. Foscolo)
La morte. Ecco il tema di oggi, ragazzi miei.
Quel contagio dal quale nessuno di noi è immune, la méta che da sempre attrae ed inquieta, la consapevolezza, propria dell'uomo, della sua caducità.
La puoi provare ad esorcizzare con la religione, con la filosofia, con l'eutanasia.
O con una fotografia.
Vivo in un paesino di mille abitanti, e altre mille anime di quello stesso paese ho conosciuto nei decenni trascorsi della mia vita, persone con cui ho diviso una carezza, un tratto di strada, una partita a carte o a pallone, magari solo un saluto, un sorriso o un semplice buonasera. E che non ci sono più.
Su una pagina creata di recente su facebook sono state pubblicate centinaia di fotografie dei tempi andati, scolaresche, processioni, feste. In quelle sbiadite immagini ho rivisto persone indimenticabili eppure dimenticate. Volti che hanno accompagnato la mia infanzia, di ognuna di esse si ricordano aneddoti, soprannomi, virtù e, perché no, vizi, ché il nostro è un paesino, l'altra medaglia del conoscersi tutti è sapere i fatti di tutti, come in un'eterna telenovela.
Eppure, dopo un primo accenno di malinconia, quelle fotografie non mi hanno messo tristezza, anzi. Quella stessa piazza dove si affollavano centinaia di persone per un evento, esiste ancora. Le persone sono altre, è vero, ma spesso nei loro occhi, nei tratti somatici di famiglia (la pétena, nel nostro dialetto) si scorge a chi "appartengono", come pure in quelle antiche foto rimani stupito, quasi spiazzato tanto da pensare ad un fotomontaggio. Sembrano persone attuali e poi guardi meglio e ti accorgi che sono i loro padri, i nonni alla stessa età degli uomini e donne di ora.
Insomma, ci si sente in compagnia anche fra estranei, capisci, o almeno ti sembra di intuire il vero significato dell'eterno ritorno, una mescolanza di geni che si ricompone in nuove forme, come in un puzzle, e ciononostante trova sempre un'unità, una compiutezza della quale anche chi non c'è più continua a fare parte e ti rende più accettabile anche il pensiero del trapasso. Che non a caso un sinonimo di fotografare è immortalare...
Di converso, penso a volte a quanto possa essere spersonalizzante la vita in una grande città. Non è un elogio alla provincia, però quando io imbocco la via del centro storico che porta a casa mia - ne ho scritto tempo fa proprio su questo blog - oltre a salutare, riconoscendola, ogni persona che incontro, posso ricordare ad ogni porta chi ci viveva e chi ci vive ora, anche se la percorro da solo alla fioca luce di un lampione, è illuminata dal ricordo di tanti volti e facce a me noti se non proprio cari. Posso ricordare la loro voce, il tocco caldo della loro mano, in altre parole l'umanità. In una città, del vicinato posso conoscere al massimo l'inquilino dell'appartamento sul mio pianerottolo, in un susseguirsi di persone, negozi, attività che cambiano di continuo e il cammino di quelle vite mi diventa immediatamente estraneo, non ne conosco l'alfa, non ne conoscerò mai l'omega.
Ho studiato a lungo, per passione, la storia della mia terra. Oltre alle persone che ricordo, mi pare di conoscerne tante altre di cui in realtà ho appreso soltanto dai libri, dai registri di nascita e morte, dagli archivi, dai resoconti, dalle lettere che mi hanno raccontato stralci delle vite di un tempo. Ed anche dalle epigrafi sulle tombe. Quella alla fine del vecchio cimitero, un tempo elegante di marmi di una famiglia nobile funestata da lutti, in cui l'anziano barone scapolo, ingiustamente sopravvissuto a fratelli più giovani e nipoti, nella solitaria vecchiaia aveva lasciato ai posteri la sua desolazione, auspicandosi, nell'iscrizione in cui ricordava i suoi cari, di raggiungerli quanto prima.
Visitare i cimiteri è un esercizio che può anche ritemprare. Come per il Foscolo, del quale citavo sopra la frase così musicale e struggente che mi è rimasta impressa sin dal liceo, anche a me è capitato perdermi nella contemplazione degli antichi sepolcri. Da quelli monumentali come il Verano, muta città-oasi nella confusione romana, a quello Acattolico nei pressi della Piramide. Incisioni che ricordano poeti maledetti, giovani innamorati infelici, o semplicemente uomini dalla vita anonima resi però immortali da una frase.
Come quella che ho lasciato detto ai miei cari di far iscrivere sulla mia lapide, quando sarà.
Due semplici parole. Un augurio o forse una minaccia.
"A presto".

mercoledì 23 dicembre 2015

Di chitarre, anni, foto e Natale alle porte.

Dimmi, senza me come ti va?
Questa domanda senza risposta girava in loop in una mia canzone di più di vent'anni fa.
Brano dedicato ad una ragazza che era stata mia, o forse lo era ancora, chissà, è passato così tanto tempo che i ricordi si confondono e confondono il corretto fluire del tempo.
Sono certo soltanto che c'eravamo io, una chitarra, la foto di lei, e un manuale di diritto che mi guardava storto, muoviti, studia, che il tempo passa!
Ma per me il tempo era già passato, le parole di quella canzone mi proiettavano nel futuro in cui io, ripensando a quei giorni, mi sarei chiesto di lei, della sua vita proseguita senza di me.
Perché il nodo è sempre questo, la mia assoluta incapacità di vivere il presente.
C'è stato un attimo in cui mi sono sentito felice, una fessura, una crepa.
E subito ho pensato che sarebbe stato bello morire.
La morte migliore, mentre sei felice.
Ma poi mi sono chiesto: passiamo la vita a rincorrere qualche attimo di gioia e proprio allora vogliamo andarcene? Non dovrebbe essere invece lo stimolo per vivere con ancora maggiore intensità, consapevoli che quel minuscolo attimo ci ha dato la prova che in fondo la felicità esiste ed è  a portata di mano?
Non sono riuscito a darmi una risposta, la crepa si era già richiusa, l'occasione perduta.
La chitarra è sempre con me. Ho strimpellato due strofe di quella canzone, davanti a me nessuna foto a sorridermi con dolcezza, nessun manuale a minacciarmi, solo un piccolo calendario a ricordarmi che il tempo è passato fregandosene altamente di me e delle mie fisime.
Tra due giorni è Natale, non va bene e non va male.
Ecco la risposta.

lunedì 30 novembre 2015

Vacanze romane

Nella vita non sei così come sembri leggendoti.
Lei, con questa frase, mi poneva di fronte ad un'equazione che non avevo mai considerato: che pur mettendo tutto me stesso nei miei scritti, altri potessero comunque percepire di me un'immagine distorta, o in ogni caso diversa dal vero. 
Scrivere e vivere son cose diverse.
Potevo scherzarci, su questa frase, o fare il filosofo, declinare l'ovvio. 
Ma che bastasse un sottile foglio di carta a frapporre uno iato così ampio fra l'apparire e l'essere mi lasciava spiazzato.
Perché lei non parlava di differenze "estetiche", non era questione pirandelliana di nasi inaspettatamente pendenti o di essere più o meno fotogenici. 
quell'affermazione che mi aveva così colpito andava a radicarsi nelle profonde insicurezze che spacciavo per contenuti di qualità dei miei testi sempre ironicamente autobiografici. 
Mentre la gente continuava a passare frenetica al di là della vetrina del caffè, da noi il tempo rimase per qualche istante sospeso. 
In quella sincope ripensai ad Escher, pesci che si facevano uccelli che si facevano cielo. Con il medesimo tratto di matita. Questioni di prospettive e di percezioni, immagini nelle quali ciascuno vede quel che vuole vedere. Anzi, quel che l'artista vuole si veda.
Le sue labbra erano lievemente schiuse. Non che io sapessi se stessero per parlare ancora o lo avessero appena fatto.
Comunque fosse, la precedetti.
È come un trompe l'oeil, risposi, ricomponendo la crasi.
Il tempo riprese a scorrere anche tra di noi, continuammo a parlare di quel che c'era stato prima e di quel che c'era stato dopo quel prima.
Poi provai ad offrire per entrambi ma lei non volle. Siamo a Roma e si fa alla romana. Uscendo, le nostre strade si divisero. Una coppia di ragazzi giapponesi proprio davanti al locale si stava scattando un improbabile selfie e colse in uno di noi due che andava un sorriso che era una promessa, ma che l'altro forse non fece in tempo a notare.
Ma il lettore può solo immaginare chi fu, anche se una volta ancora fidarsi dello scrittore può essere solo un inganno.

venerdì 13 novembre 2015

I sogni son desideri

E se un genio (o il papa al quale hai tolto una spina dal piede) ti chiedesse di esprimere un desiderio, cosa chiederesti? E via a pensare, l'immortalità forse, ma anche la salute perché se stai di merda e non muori mai, insomma... E però così son due desideri, non si può! Allora la pace nel mondo? Vabbè vorrei vedere se hai un solo desiderio  e c'è Scarlett Johansson che può aspettarti a letto con indosso solo Chanel n. 5 quanto te ne può fregare dei bombardamenti in Krakhozia!! Allora il sesso? Ma se deve essere così poco spontaneo, allora non serve il genio, basta la carta di credito... L'amore, allora? E però dovrebbe essere eterno, e poi torna il problema della salute... Insomma, chissà quanti si saranno fatti qualche volta questa domanda, nel corso dei secoli, e la risposta giusta non è stata mai trovata, ma forse era a portata di mano, ed era: che cazzo ci pensiamo a fare, mica accadrà mai che un genio (o il Papa) ci daranno questa opportunità. Sono solo giochetti per ingannare la mente, come parlare del tempo, candy crush, le religioni.
Ma se davvero dovessimo darla questa risposta, io mi rifarei a quanto sentii in una puntata dei Simpson (quella in cui al bar, ubriachi, ipotizzavano appunto che il Papa, tolta la spina, desse loro questa opportunità). Donne, immortalità, pace nel mondo, tutte opzioni che non li convincevano appieno.
Fino a quando, alla illuminante proposta di Homer, si trovarono finalmente d'accordo.
Camicie ben stirate.

P.S.
Siccome l'ho provato stanotte, lo consiglio a tutti. Un desiderio da esprimere, se mai dovesse capitarvi, è svegliarvi sempre dai brutti sogni.

martedì 27 ottobre 2015

Il nodo di scambio


Avevo già i miei dubbi, ma fu esattamente dieci anni fa che realizzai che la politica non era fatta per me. Quel periodo in cui, giovane avvocato intriso di concetti etici, mi illudevo che la disponibilità, l’impegno, la passione, fossero carburante sufficiente a spingere la macchina del consenso. Dovetti invece accorgermi che le cose non stavano affatto così, che ciò che conta per la gran parte degli elettori è ben altro. Potreste pensare al voto di scambio, all’opportunità di un posto di lavoro che, nel nostro sud flagellato dalla disoccupazione, è sicuramente stimolo più forte dei meri ideali. Magari fosse stato solo questo, lo avrei ben compreso e accettato. C’era dell’altro.

Avevo radunato alcuni amici, più o meno della mia età, quelli con cui avevo trascorso la giovinezza al paese e, davanti ad una pizza, provavo ad illustrare il senso della mia candidatura alle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di lì a pochi mesi; parlavo di condivisione, di speranza, di necessità di “entrare nel palazzo” perché solo dall’interno era possibile imprimere una svolta concreta, di lotta contro l’immobilismo atavico che frenava ogni possibilità di sviluppo del nostro paese ancora fermo, nella mentalità, al secondo dopoguerra.

Così chiedevo il loro voto, per provare a cambiare le cose, per “guardare avanti” (era questo il mio slogan). Uno di loro, però, che era rimasto silenzioso, al mio invito ad esprimere le proprie perplessità, mi rispose che sì, le cose che dicevo erano valide, però lui “doveva” votare per l’altro candidato, verso il quale aveva un forte debito di riconoscenza. Mi chiesi cosa mai gli avesse fatto di così importante, anche perché ricordo che veniva da me per ogni problema legale (aveva una piccola attività imprenditoriale) che io gli risolvevo, peraltro sempre gratis. Lui non volle rispondermi, e dopo i convenevoli, andò via. Qualche giorno dopo un altro di coloro che erano con me quella sera mi disse che gli aveva rivelato le ragioni del perché non intendeva votare per me ma per l’altro candidato. Perché questi gli aveva insegnato a fare il nodo della cravatta, e anzi, quando c’era un matrimonio e lui doveva mettersela, era persino andato a casa sua a stringerglielo.

Tralasciando il fatto che in quel momento se lo avessi avuto fra le mani gliel’avrei stretto io come si deve quel nodo intorno al collo, davvero non potevo crederci, ma l’amico davanti a me mi confermò che era proprio così, che nel raccontarglielo quello era assolutamente serio.

Colsi da quell’evento auspici negativi. Se un giovane si lascia convincere a votare per un candidato che rappresenta il passato per una ragione assurda come questa, non c’è speranza. A maggior ragione in quanto io, il mio amico, non l’avevo mai visto con una cravatta! Non è che si trattasse di un’esigenza primaria e quotidiana, eppure…

Gli auspici negativi si realizzarono, io persi le elezioni e insieme a loro ogni mia speranza di un cambiamento che, infatti non c’è mai stato.

Quell’amico lo reincontrai qualche anno dopo. Eravamo ad un matrimonio. Lo salutai ma non mi rispose, emise solo un grugnito. Si era mezzo assopito su una poltrona dopo aver onorato il menu e soprattutto la cantina del ristorante. Sulla camicia chiazzata scivolava, come un boa constrictor con la scoliosi, una cravatta a pois che a malapena arrivava sul suo addome prominente. La parte anteriore ben più corta della posteriore, che invece penzolava libera lungo un fianco. Il nodo, allentato, ricordava uno scarafaggio sorpreso dietro uno scaffale e schiacciato con una ramazza.

E intanto il suo “mentore”, eletto con il suo voto e quello di tanti altri, stava beatamente amministrando perpetuando l’andazzo degli ultimi cinquant’anni, dall’alto dei suoi meritevoli favori, come quello di aver insegnato da par suo al mio amico come annodarsi la cravatta.


venerdì 16 ottobre 2015

Un calcio ai ricordi

Passando, osservo alcuni ragazzi seduti davanti al bar. E penso che dovrebbero capire che per ovviare alla crescente disoccupazione giovanile non è una buona soluzione diventare dipendenti dell’alcol, che non è mai stato un buon datore di lavoro. Forse i primi tempi. Ma la ripresa non c’è mai. Faccio questa pseudo battuta e mi viene in mente il calcio, la mia gioventù, ripenso a quei giochi da adolescenti, quando si stabilisce che chi vince può dare un bacio al più bello/bella della classe. Ma non tutti i ragazzi capivano le regole del gioco. Infatti, capitava che quando il bacio lo dovevano dare a me, toccava non a chi vinceva ma a chi perdeva. Che ridere!
Così pure quando si facevano le squadre per la partita di pallone. E questa storia la voglio raccontare. I due capitani facevano la conta, e sceglievano a uno a uno i propri compagni, partendo ovviamente dai migliori. Io ero sempre fra gli ultimi. Umiliante, ma da accettare perché in applicazione della più stringente meritocrazia, fosse sempre così. Non dovevi abbatterti, era uno stimolo, dovevi lavorare duro per non essere più l’ultima scelta. E io ci provavo, mi mettevo ore e ore a palleggiare (non è che palleggiassi così a lungo, per ore ma sempre un palleggio alla volta), insistevo, tenevo duro, mi dicevo che sarebbe successo finalmente che il capitano avrebbe scelto me, non dico prima di tutti ma almeno non proprio per ultimo.
Solo che le cose non miglioravano, anzi, se possibile peggiorarono. Sarà stata la metà degli anni ’80, le prime partite sul nuovo campo “Cretazzi”, all’epoca ristretto con le porte all’altezza delle aree di rigore, per un torneo di calcio a cinque. Solo che eravamo in undici. E, neanche a dirlo, dopo che erano stati scelti i primi cinque di ogni squadra, l’unico rimasto fuori ero io. A quel punto, perché il “dispari” giocasse comunque, interveniva una regola altamente democratica, quella del “tempo per uno”. Il soggetto superfluo diventava di colpo importante, perché la squadra con cui veniva schierato, sebbene per un solo tempo, giocava con l’uomo in più, quindi maggiori possibilità di coprire il campo, di avere un compagno sempre smarcato. Eppure non andò così, niente affatto.
Perché nonostante la superiorità numerica della squadra che mi schierava, il primo tempo finì invece tre a zero per la squadra con l’uomo in meno. Poi nell’intervallo il cambio di casacca e scesi in campo con quelli che stavano dominando. E che con me in più fra le loro fila, loro che stavano vincendo, persero la partita 4-3. Un capolavoro, una partita indimenticabile come quell’Italia–Germania mondiale del 1970 conclusasi con il medesimo risultato, e che mi costrinse a trarre le inevitabili conclusioni.
Da quel momento io e il calcio ci separammo consensualmente, rimanemmo amici, io presi in affido il divano e da quel momento da “sportivo” divenni appassionato davanti alla TV. Continuai a palleggiare, in gran segreto, nella mia cantina, e vi confesso che ci furono occasioni magiche in cui ne feci anche dieci, solo però se consideriamo validi i tocchi di ginocchio, di petto, spalla, muro e, non essendoci arbitri presenti, anche qualche fuggevole rimando di mano per non far cadere in terra il pallone.
Ci fu ancora qualche partitella uno contro uno a calcio-tennis, con le righe in terra tracciate con il carbone, contro qualche cuginetto di dieci anni più piccolo, dove strappai qualche pareggio, poi più niente, non potetti più provare quelle indimenticabili emozioni (perché anche quelle negative lo sono, e si dimenticano ben più difficilmente); ad esempio ricordo ancora a distanza di oltre trent’anni di quando capitavo in squadra con persone che non mi conoscevano e quindi all’inizio mi passavano fiduciose la palla, e io mi impegnavo pure a scartare l’avversario ma non ci riuscivo quasi mai, e allora i passaggi in mio favore si diradavano fino a cessare del tutto, allora chiamavo la palla a gran voce, ma non me la davano mai, e alla fine non avevo più neppure il coraggio di alzare il ditino mignolo e chiedere per piacere, tanto era inutile, a meno che in squadra non ci fosse qualche amico vero, che aveva compassione e allora me la passava comunque mentre tutti gli altri intorno, cercando di non essere visti si facevano la croce, e qualcuno più sfacciato, quando c’era in ballo la pizza, diceva apertamente al mio amico che se mi passava la palla la cena la pagava lui. Cose così, che segnano. Almeno segnano loro. Gli unici “gol” venuti da me in una partita.
E credetemi, per queste cose non c’è riscatto. Quando mi sfottevano, qualcuno che mi voleva bene li apostrofava: “voi saprete giocare a pallone, ma lui a scuola va meglio di tutti voi!”. Ma era peggio ancora! Perché io – e chiunque altro – avrei volentierissimo scambiato i miei inutili dieci sulla pagella con un dieci sulle spalle come Maradona, Baggio, Antognoni, D’Amico, gli idoli di allora! Tutto il resto della mia vita, gli hobby, i talenti, non valevano quanto il poter essere protagonista su un campetto.
Addirittura, in quegli anni di enormi ristrettezze economiche dei nostri genitori, non potendomi permettere un paio di scarpe bullonate per poter partecipare alle sfide sul campo in terra battuta (con le “Tepa sport” da ginnastica che usavano allora finiva lungo disteso al primo tentativo di calciare la palla), arrivai persino a barattare l’organo elettrico su cui avevo imparato a suonare, con un paio di Adidas usate, e pure di qualche numero in meno, ma coi così desiderati “tacchetti”! Chissà se le usai mai… Questo non lo ricordo più, che fossero ai miei piedi proprio in quella famigerata partita del 4-3? Forse si trattava di scarpe magiche, come nelle favole, stivali delle sette leghe, o meglio scarpine di Cenerentola, infatti mi dicevano che giocavo come una femminuccia (ma non era vero, tante ragazzine giocavano molto meglio, con più grinta e miglior tocco).
Comunque, già allora soffrivo di insonnia, e per addormentarmi avevo bisogno di pensare a “cose belle”, così suggeriva mia madre, e allora mi immaginavo al centro del campo, in serie A, osannato dagli spalti, e almeno nei sogni non avevo problemi a scartare gli avversari e infilare la palla nel sette col mio sinistro vellutato.
Poi gli anni passarono, e anche i sogni hanno una loro dignità, si devono nutrire di verità, se sono troppo incredibili ottieni l’effetto contrario, invece di rilassarti, ti incazzi ancor di più per quanto la tua vita sia in realtà totalmente diversa da loro. E allora, quando diventai troppo grande per potermi ancora immedesimare nei miei idoli che via via si erano ritirati per sopraggiunti limiti d’età, dovetti giocoforza cambiare soggetto alle mie sceneggiature oniriche. Il tempo era passato, misi una pietra sopra sul calcio giocato e iniziai a sognare di diventare cantautore. Scelsi Ligabue, stemmo sul palco per anni insieme, quasi tutte le notti, a scambiarci le canzoni, a duettare. Per un po’ dormii tranquillo, lì in realtà un po’ di talento in più rispetto al pallone l’avevo, ma neanche tanto, lo so. Infatti, Liga a Campovolo pure quest’anno ha fatto centocinquantamila spettatori paganti, mentre io ancora adesso la sera mi metto a suonare la chitarrina da solo, a casa, o davanti a mia figlia. Ma sentirla cantare prima di me i testi delle mie sconosciute canzoni mi riempie di gioia che non potete crederci, forse ancor di più di quando Luciano sente l’urlo della folla non appena arpeggia i primi accordi di “Certe notti”.

Magari uno di questi giorni io e lei proviamo pure due palleggi. Giusto due. Uno alla volta.